Autore controcorrente, spiazzante per la violenza estrema dei suoi film e sorprendente per l'originalità delle storie che racconta. Affronta la categoria della famiglia borghese smontandone tutte le apparenze, la sensualità e i pregiudizi sono sviscerati in modo profondo. Una carriera cinematografica intellettuale che stringe le inquadrature su temi scottanti, diventando un vero maestro della negazione, un autore che non lascia ma indifferenti.
L'esordio con i giochi pericolosi scanditi dalla casualità
Studia filosofia, psicologia e teatro a Vienna e lavora come sceneggiatore per la televisione tedesca e per la compagnia teatrale Südwestfunk. Il film Der siebente Kontinent (1989) segna l'esordio al cinema: il debutto ruota attorno alla cronaca del sistematico annientamento di una famiglia della borghesia austriaca, tema "caro" al regista, tanto da riprenderlo poi in film successivi. La solitudine esistenziale e la forza del caso sono i temi attorno ai quali si sviluppano le sue pellicole più spietate, che mostrano un quadro freddo e distaccato del malessere diffuso nell'Austria contemporanea attraverso la costruzione di personaggi che agiscono insensatamente, seguendo un disegno ordinato solo dalla fatalità. Il protagonista di Benny's Video (1992), ossessionato dalla tecnologia fino all'omicidio, si avvicina ai killer in bianco di Funny Games (1997) che sequestrano una famiglia borghese in vacanza, formata da Susanne Lothar, dallo scomparso Ulrich Mühe e figlioletto, e la massacrano senza apparente motivo. La violenza delle scene viene sempre tenuta fuori campo, non viene mostrata esplicitamente ma il risultato è comunque un'assordante ritratto della banalità del male che colpisce senza una causa legittima e giustificabile. Il collettivo 71 Fragmente Einer Cronologie des Zufalls si riflette nei quadri di Storie - Racconto incompleto di diversi viaggi, girati in lunghi piani sequenza e in 4 lingue diverse; un lavoro non apprezzato da tutti ma che esprime tutta la voglia di sperimentare del regista, sia nei contenuti che nello stile formale.
La ricerca della verità attraverso la sensualità e il voyeurismo
Con La pianista (Gran Premio della giuria a Cannes 2001), in cui un'intensa e toccante Isabelle Huppert interpreta con superba bravura una donna dalla doppia vita, si sofferma a riflettere sull'importanza della repressione sessuale in termini intimistici. Indaga con lucida freddezza i meandri inconfessati del desiderio e della sensualità e lo fa con estrema discrezione, malgrado il tema sia fortemente legato ad un'idea di passionalità e istinto difficile da tenere a bada. Nel 2003 è la volta de Il tempo dei lupi, dove una famiglia borghese si ritira nella casa di campagna per passare qualche giorno in tranquillità ma ad aspettarli ci saranno un gruppo di poveri profughi che non li accoglieranno bene. Alle prese con il tema della verità e della tecnologia sempre più invadente dell'età contemporanea, nel 2005 chiama Juliette Binoche e Daniel Auteuil protagonisti di Niente da nascondere, un film complesso e ricco di sfaccettature che lascia irrisolti molti punti interrogativi per riflettere sulla devastazione che può provocare il voyeurismo.
Lo strano caso del remake di Funny Games e il ritorno alla parabola della violenza
Nel 2007 sceglie di rifare Funny Games in America con attori famosi (Naomi Watts, Tim Roth e Michael Pitt), ne ricalca le stesse scene e gli stessi dialoghi, fa pochissime variazioni nell'intento di proporre anche oltreoceano un film importante e necessario che dieci anni prima non aveva avuto la giusta distribuzione nelle sale. Originale è invece il nuovo Il nastro bianco (2009), con il quale ritorna a indagare i reami della violenza e della freddezza dei rapporti dagli occhi di chi ne avrebbe meno bisogno: i bambini. Grazie a questo film vincerà la Palma d'Oro a Cannes, festival al quale tornerà tre anni dopo con la storia di un amore senile interpretata da Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva, Amour (2012). Anche quest'opera è un successo, tanto da regalargli ancora una volta l'ambita Palma del Festival, oltre che il Golden Globe come miglior film straniero e cinque nomination agli Oscar 2013.
Se dovessimo riassumere la ricezione che Happy End (guarda la video recensione) ha avuto dalla critica, si potrebbe spiegare in questo modo: nessuno nega a Michael Haneke l'onore delle armi e la capacità di fare film di tutto rispetto, ma i temi e le metafore sono le medesime di sempre. Il rischio, insomma, è quello della ripetizione. Ecco, Happy End è quello che si direbbe un caso di scuola per la critica autoriale