Il cinema spiega la storia meglio della cronaca e della letteratura. Sulla Resistenza si sono applicati autori grandi e onesti, che hanno proposto visioni diverse ma sempre credibili.
Come ogni anno il 25 aprile evoca la Resistenza con tutte le implicazioni politiche, strumentali e stucchevoli. É una data divisiva, e non dovrebbe esserlo perché la Resistenza è un’azione univoca. Una parte degli italiani, sconfitti dalla guerra, si univano agli alleati, combattevano e morivano. Ma alla fine riscattavano parzialmente quella pesante sconfitta. Mi sono espresso con un giudizio politico, conosco bene l’argomento, ma non è il mio mestiere. E così il mio mestiere lo faccio raccontando quel movimento attraverso il cinema. E davvero c’è tanta roba, potente, ideale, di qualità. E come spesso accade il cinema spiega la storia meglio della cronaca e della letteratura. Sulla Resistenza si sono applicati autori grandi e onesti, che hanno proposto visioni diverse ma sempre credibili e inalienabili anche per il tempo che passava. Sono da ricordare Scola (C’eravamo tanto amati), Lizzani (Mussolini ultimo atto), Montaldo (L’Agnese va a morire), Risi (Una vita difficile), i Taviani (La notte di San Lorenzo), Chiesa (Il partigiano Johnny). Ma ce ne sono altri, ho dovuto scegliere.
Ma l’eroe, il maestro primo, identitario, è Roberto Rossellini. La Resistenza gli stava davvero a cuore. Ha composto la cosiddetta trilogia, e quei titoli entrano a pieno diritto nella storia nobile, generale e anche popolare, del cinema di tutti i tempi.
Roma città aperta (1945).
Tre sono i personaggi centrali, Pina (Magnani) vedova con un bambino. Manfredi, capo partigiano, don Pietro, che aiuta la resistenza. Ma la Gestapo fa il suo lavoro. Tutti vengono uccisi. La sequenza della Magnani falciata da una raffica è scolpita nella pietra, lì eterna, e don Pietro che la prende fra le braccia è una vera opera d’arte, la più bella “Pietà” del cinema. Da questo film usciva un’immagine del popolo italiano ben diversa da quella accreditata fino ad allora: gente passiva, capace soltanto di obbedire allo scomodo alleato tedesco e di tradirlo al momento opportuno. Cinquant’anni dopo Steven Spielberg nel suo Schindler’s List (guarda la video recensione) ha cercato di infondere nelle scene la drammaticità e la verità del realismo alla Rossellini. Gli è riuscita la drammaticità, non la verità. Celluloide di Lizzani ripropone la stessa storia di questo capolavoro.
Paisà (1946)
Il film è composto da sei episodi che percorrono lo stivale. Gli scenari sono la Sicilia, Napoli, Roma, Firenze, l’Appenino Emiliano e il delta del Po. Nel primo una ragazza aiuta una pattuglia americana a organizzarsi sulla costa. Secondo episodio: a Napoli uno scugnizzo ruba un paio di scarpe a un soldato americano di colore, ubriaco. Il giorno dopo il soldato ritrova il ragazzo e... gli lascia le scarpe. Terzo episodio: a Roma un americano conosce Francesca. Si perdono di vista. Lui incontra una prostituta. Non si accorge che si tratta proprio di Francesca. Non c’è lieto fine. Quarto episodio: a Firenze un’infermiera inglese cerca il suo compagno, un partigiano, certo Lupo. Attraversa gli Uffizi fra gli spari. Soccorre un partigiano morente che nel delirio dice: «...anche Lupo è morto...». Quinto episodio: in un convento sull’Appennino tosco-emiliano arrivano tre cappellani, un rabbino, un protestante e un cattolico. I frati cercano ingenuamente di “riparare”: la sera digiunano per ottenere dalla provvidenza la conversione dei due non cattolici.
Sesto episodio: alle foci del Po i partigiani combattono i tedeschi che sono in forze preponderanti. Circondati, i partigiani non hanno via d’uscita. Alcuni si uccidono, altri, fatti prigionieri, vengono gettati legati nel Po.
Paisà è forse il più lucido, chiaro, drammatico manifesto del cinema neorealista italiano. Rossellini evolve la chiave narrativa di Roma città aperta con uno stile che riesce a perfezionare una cifra già vicina alla perfezione. Realizza storie con la verità del documentario e un documentario senza didattica e con la “fantasia dell’intreccio di finzione. E davvero fatichi a cogliere la differenza. Una misura che appartiene solo a lui. Gli episodi non si avvalgono della presenza di grandi nomi, mentre in Roma città aperta Anna Magnani e Aldo Fabrizi, autentici divi italiani, portano un contributo decisivo. Rossellini fa parlare i personaggi in inglese e in tedesco senza preoccuparsi di sottotitolare: un’altra manifestazione di verità vicina alla gente italiana, che per anni sentì quelle lingue senza capirle.
Il generale della rovere (1959)
Indro Montanelli venne arrestato nel febbraio del 1944 e incarcerato a San Vittore, dove conobbe per pochi giorni, il generale Fortebraccio della Rovere. Solo dopo la guerra si venne a sapere che il generale era in realtà Giovanni Bertone, un piccolo imbroglione, e ladro, che millantava di poter far liberare dei prigionieri dei nazisti grazie alle sue conoscenze. I tedeschi lo utilizzarono come spia. Aveva il compito di scoprire un capo partigiano a sua volta prigioniero. Ci riesce, ma non lo denuncia, ha preso coscienza della lotta contro i nazisti, ha scovato dentro di sé un residuo morale e si fa fucilare. Montanelli scrisse il soggetto e collaborò alla sceneggiatura. Rossellini ci mise del suo. Scelse Vittorio de Sica per il ruolo di Bertone. A fronte degli stessi dubbi di De Sica, Rossellini era convinto che Vittorio avrebbe coperto quel ruolo, drammatico per la prima volta, perfettamente. Ma Rossellini non trascurò i suoi valori ideali. Il colonnello Müller, che aveva gestito il falso generale, di fronte a quell’inaspettato e strano eroismo disse di aver sbagliato nel giudicare il carattere di un italiano.
Ciao Resistenza. Ciao bella ciao.