DEATH OF A UNICORN, UNA RIFLESSIONE SULLA SOCIETÀ AMERICANA ATTUALE, E SUL CAPITALISMO TUTTO

Una commedia feroce con la protagonista Jenna Ortega, custode di una rabbia, di una indignazione, di una purezza che rappresenta l’ultima frontiera della speranza. Al cinema.  

Giovanni Bogani, sabato 12 aprile 2025 - Focus
Jenna Ortega (Jenna Marie Ortega) (22 anni) 27 settembre 2002, Palm Desert (California - USA) - Bilancia. Interpreta Riley nel film di Alex Scharfman Death of a Unicorn. Al cinema da giovedì 10 aprile 2025.

Si inizia, e pare di essere dalle parti di Shining. Un’auto si inoltra nel Nord americano, tra foreste secolari, verdi e gialli delle foglie, alberi inquadrati dall’alto, e l’auto giù, puntino in una Natura. Che hai la sensazione non gradisca troppo questa intrusione.

Troveremo, anche dopo, echi kubrickiani, per esempio quando Jenna Ortega sfiora il corno dell’animale del titolo, e ne riceve una sorta di illuminazione. Dalle iridi dei suoi occhi scuri, partiamo per un viaggio fra spirali, nebulose, costellazioni di punti luminosi che ricordano da vicino il viaggio “Oltre l’infinito” di 2001: Odissea nello spazio (guarda la video recensione) di Stanley Kubrick. Ma le somiglianze si fermano qui. Alex Scharfman, produttore, qui all’esordio come sceneggiatore e regista di Death of a Unicorn, non è né sarà mai Kubrick. E non sarà nemmeno Spielberg o Ridley Scott, anche se Jurassic Park e Legend c’entrano, come punti di riferimento del suo film.

No: se a qualcosa assomiglia questo film, è ai B-movies americani degli anni ’80, quei film che da noi arrivavano alle soglie dell’estate. E mescolati a quei sapori, ci sono quelli di una commedia horror che si incrocia con il teen movie, anche se Jenna Ortega, la protagonista, è un po’ troppo adulta per essere “teen”. E il tutto si incrocia con il genere che in America chiamano “eat the rich”. Commedia feroce, grottesca, in cui quelli delle classi dominanti fanno una brutta fine. Fra gli esempi migliori, negli ultimi anni, Parasite (guarda la video recensione) di Bong Joon-ho e Triangle of Sadness di Ruben Östlund.

Qui, i ricchi da mangiare sono un oligarca dell’industria farmaceutica e la sua famiglia. Un triangolo di privilegiati, arroganti, sfruttatori del lavoro altrui, privi di scrupoli all’ultimo grado. Con il capofamiglia industriale, la moglie ipocritamente filantropa, il figlio immaturo, viziato ed ex tossicodipendente.

È verso questa famiglia che un avvocato (Paul Rudd) e la figlia Jenna Ortega si dirigono. L’avvocato dovrà sistemare le ultime faccende legali del magnate, che sta morendo di cancro. Durante il viaggio – quello che ricorda l’inizio di Shining, per capirsi – il padre fa di tutto, tranne che guardare la strada: litiga con la figlia, litiga col telefono, perde la comunicazione, richiama, non c’è campo, si innervosisce, spinge sull’acceleratore… Ovvio che prima o poi impatti con qualcosa o qualcuno. Non è un’auto, non è un Tir, non è un ciclista, un pellegrino o nemmeno un cervo. È un giovane unicorno, preso in pieno.

Qui parte il deragliamento del film, che certo ti porta a tirare come un elastico la tua sospensione dell’incredulità: devi credere che gli unicorni esistano. E poi, che il loro sangue e la polvere del loro corno abbiano proprietà miracolose. Che facciano guarire il magnate morente. “Abbiamo trovato la cura contro il cancro!” esclama costui, senza neanche controllare i possibili effetti collaterali.

Il film è un po’ così: di grana grossa. I personaggi sono tutti degli stereotipi, e gli attori sono spinti a caratterizzarli nel modo più esagerato e didascalico. Intanto, il film si trasforma sempre più da commedia horror a incubo splatter. Entro questa cornice, fra unicorni creati in CGI, il film trova la sua carta migliore nella sua riflessione sulla società americana attuale, e sul capitalismo tutto. Una società in cui vige la legge del più forte, del più spregiudicato. Gli altri devono sottostarvi. Le classi sociali raccontate, messe in scena dal film sono in realtà tre: i ricchi, con la famiglia dell’oligarca dell’industria farmaceutica; i loro servitori, dai domestici agli scienziati; e l’avvocato, che rappresenta una borghesia ormai costretta ad ogni compromesso, ad ogni asservimento, incapace di ritrovare la schiena dritta e la sua dignità. A osservare tutto questo, Jenna Ortega, la figlia, emblema di una generazione che sente come le generazioni precedenti abbiano distrutto, divorato, rovinato. Custode di una rabbia, di una indignazione, di una purezza che rappresenta l’ultima frontiera della speranza.

Volendo, nel magnate Richard E. Grant e nella sua famiglia possiamo leggere allusioni a Trump o a Elon Musk, o agli altri tycoon che hanno dominato o dominano la società americana. Anche se il film rimane a metà, fra le esigenze dello spettacolo, del gioco, della sarabanda, e quelle dell’indignazione, della denuncia, della critica sociale. Per quanro riguarda il cast, tutti sono un po’ ingabbiati nei rispettivi personaggi: bravo Will Poulter, nell’esagerare i tratti del suo figlio irresponsabile e tossicodipendente, sempre con inadeguati calzoni corti; e brava Téa Leoni, che si rivede dopo un bel po’, e che in tutto quel concentrato di agitazioni e facce è quella che ammicca di meno.

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