Un film intriso di elementi autobiografici, in cui la linea di demarcazione tra regista e alter ego si fa più sottile. E dove la tecnologia, pur offrendo nuove forme di connessione, distorce il processo naturale di elaborazione del dolore. La linea di separazione tra intimità e intrattenimento è definitivamente compromessa. Dal 3 aprile al cinema.
L’uscita in sala di The Shrouds – Segreti sepolti è un’opportunità per restituire al film un ruolo rilevante nella filmografia di David Cronenberg, dopo una tiepida accoglienza a Cannes. Sottilmente dimesso in apparenza, concettuale e ardito nella sostanza, è un film intriso di elementi autobiografici, in cui la linea di demarcazione tra regista e alter ego si fa più sottile.
Ancorato alla realtà da un lutto personale – la morte della moglie nel 2017 – Cronenberg appare in dialogo con se stesso, con la sua produzione passata e con i suoi critici, in un film che è sempre più paravento per una riflessione filosofica sul presente e sul futuro, individuale e universale. Ma proprio questa natura – esplicitata fino alla nudità - teorica e autoreferenziale, rende The Shrouds un interessante oggetto di studio. I temi tipici del cinema di Cronenberg sono tutti presenti, ma l’ironica consapevolezza che permea la superficie porosa del film ci suggerisce non solo che il regista sa anche prendersi in giro, o quantomeno osservarsi dall’esterno, ma anche che le pulsioni scopiche dell’epoca di Videodrome sono diventate la norma nel nostro quotidiano.
Nel guardare non c’è più alcuna trasgressione, tutto è talmente sovraesposto e moltiplicato attraverso innumerevoli dispositivi che al protagonista Karsh non resta che l’aldilà per saziare il suo desiderio voyeuristico. Dal punto di vista stilistico, Cronenberg utilizza una fotografia fredda e clinica, che accentua il distacco emotivo dei personaggi e riflette la natura asettica della tecnologia presentata. Le inquadrature statiche e l'uso di ambienti minimalisti contribuiscono a creare un'atmosfera di inquietante serenità, in cui l'orrore si insinua sottilmente nella quotidianità.
Un aspetto particolarmente interessante è l'esplorazione del confine tra pubblico e privato nel contesto del lutto. La possibilità di osservare in tempo reale la decomposizione di una persona cara solleva interrogativi etici e psicologici: fino a che punto è sano o morboso voler mantenere un legame così tangibile con i defunti? Cronenberg sembra suggerire che la tecnologia, pur offrendo nuove forme di connessione, può anche distorcere il processo naturale di elaborazione del dolore. Con la mercificazione della morte nell'era digitale, l’incubo debordiano è ormai compiuto: la società dello spettacolo è ovunque attorno a noi, la linea di separazione tra intimità e intrattenimento è definitivamente compromessa. Karsh non solo crea un sistema per soddisfare un bisogno personale, ma lo commercializza, trasformando il dolore in uno spettacolo per le masse. E si espone così alla ritorsione di terroristi, innescando una reazione a catena in cui prende forma l’autentico antagonista del film: il complottismo, nuovo virus sottocutaneo, nuovo morbo inquinante di carne e di pensiero, nuovo perturbante erotico.
Il pensiero che dietro tutta questa immagine apatica e indistinta ci sia un disegno che muova le cose avviluppa i personaggi, come appunto un sudario, senza donare risposte né certezze, ma trasmettendo il conforto che ancora esista un’incarnazione del male fuori da noi, percepibile se non identificabile. Ci renderemo conto solo tra qualche anno, come spesso avviene con il regista di La mosca, dell’importanza teorica del vaticinio di The Shrouds.