TAXI DRIVER, UN VIAGGIO NELL’IMMAGINARIO DEL CINEMA CON UN MONUMENTALE ROBERT DE NIRO

Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1976, il film torna in sala in versione restaurata in 4K dal 31 marzo al 2 aprile.

Simone Emiliani, lunedì 31 marzo 2025 - Focus
Robert De Niro (81 anni) 17 agosto 1943, New York City (New York - USA) - Leone. Interpreta Travis Bickle nel film di Martin Scorsese Taxi Driver. Al cinema da lunedì 31 marzo 2025.

Forse tutto comincia da John Ford e da uno dei suoi capolavori western, Sentieri selvaggi. In quel film John Wayne, nei panni di Ethan Edwards, porta in salvo la nipote rapita dagli indiani Comanche. Nel finale di Taxi Driver, Travis Bickle invece riesce a togliere dal giro della prostituzione la ragazzina Iris, interpretata da Jodie Foster. Entrambi poi sono due reduci. Il primo della Guerra di Secessione, l’altro è un ex-marine del Vietnam.

Lo stesso sceneggiatore Paul Schrader ha ammesso che Sentieri selvaggi è tra le sue principali fonti d’ispirazione, assieme a "Lo straniero" di Albert Camus e ai diari di Arthur Bremer, l’aspirante omicida del politico George Wallace che sono stati pubblicati col titolo "An Assassin’s Diary" e che hanno affascinato Schrader quando è andato a vivere nella propria macchina nel periodo in cui stava divorziando dalla moglie. 

Taxi Driver, che ha vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1976 ed è tra i titoli più importanti di tutta la filmografia di Scorsese, rappresenta la prima collaborazione tra il regista e lo sceneggiatore, proseguita poi con Toro scatenato, L’ultima tentazione di Cristo e Al di là della vita. Sotto questo aspetto il film è l’incrocio ideale tra i loro due universi, tra il cammino cristologico tra caduta e possibilità di redenzione del cinema di Schrader e lo sguardo onirico, visionario di quello di Scorsese.

Le luci di New York sono sempre scintillanti ma diventano anche dispersive, sinistre, immagini di una giungla metropolitana che il protagonista vorrebbe ripulire. “Sono nato per essere solo” dice Travis. Lo sguardo è quello dell’esule, l’illusione quella del nuovo sogno americano. Ma la dimensione è già allucinata, schizofrenica resa in tutta la sua potenza devastante da un monumentale Robert De Niro, al secondo film col regista dopo Mean Streets. Domenica in chiesa, lunedì all’inferno. La sua voce-off è un continuo e ininterrotto flusso di coscienza. I suoi pensieri diventano invasivi e diventano determinanti per amplificare le sue ossessioni. La sua trasformazione fisica avvenuta più volte nel corso del film (celebre l’immagine con il taglio mohicano, gli occhiali da sole e giacca militare) ne è una delle dirette conseguenze. 

Scorsese amplifica il clima di paranoia presente in molto cinema statunitense dei Seventies, da I tre giorni del Condor di Pollack realizzato l’anno prima a Tutti gli uomini del Presidente di Pakula uscito, come Taxi Driver, nel 1976. Ma quello del regista nei confronti di De Niro è anche un pedinamento zavattiniano, quasi uno sguardo nascosto ma sempre presente per mostrare le sue azioni e soprattutto le sue reazioni. Per questo resta anche un film che, al di là di quello che mostra, è anche un ‘viaggio sull’immaginario del cinema’. Il cinema italiano neorealista diventa un omaggio forse anche involontario, ma che testimonia anche come la precisa scrittura di Schrader scorre parallelamente a un film che cattura le pulsioni, i desideri, l’illusione di una vita normale da parte di Travis soprattutto dopo che ha incontrato Betsy, l’immagine della purezza incarnata nel volto di Cybill Shepherd, che lavora nello staff del senatore Charles Palantine candidato alle elezioni. Ma, al contrario, mostra anche la sua violenza repressa, la sua follia, il perverso e fascinoso legame con la morte che accomuna molti personaggi del cinema di Scorsese.

L’immagine della mano insanguinata di Travis che simula la forma di una pistola anticipa già quella discesa agli inferi senza ritorno, la destabilizzazione di un ‘uomo senza sonno’ che perde il controllo. Il viaggio immaginario sul cinema è anche nello sguardo su New York, con le tonalità dark del film noir ma anche nei colori accesi desaturati della fotografia di Michael Chapman che si avvicina alle forme di un cinema sperimentale che coincide con quella libertà creativa forse irripetibile della New Hollywood. I dettagli della freccia del taxi, del rosso dei semafori diventano oggetti determinanti della geografia metropolitana di uno dei film più importanti capaci di catturare l’anima della Grande Mela proprio attraverso il cinema.

Anche se sotto due punti di vista diversi, probabilmente contrapposti, quello di Scorsese con Taxi Driver e di Woody Allen con Manhattan (guarda la video recensione) sono tra i più significativi atti d’amore alla città dagli anni Settanta in poi. Travis diventa il doppio di sé stesso (la scena davanti allo specchio in cui c’è il monologo “Ehi, con chi stai parlando? Ma dici a me?”), anzi si moltiplica. Gli altri personaggi potrebbero apparire come personali deformazioni soggettive, forse preannunciate dai dettagli sugli occhi di Travis proprio all’inizio del film con riflessi chiari, scuri, rossi.

E forse il finale sul taxi potrebbe essere un sogno, con il tassista che si ritrova davanti a un’improvvisa apparizione, forse a un miracolo, una resurrezione in cui c’è ancora l’esempio del perfetto incrocio tra Schrader e Scorsese. Oppure il magnifico inganno del cinema, sottolineato anche dalla melodia straniata di Bernard Herrmann qui al suo ultimo film e con la sala (anche quella del cinema porno dove Travis porta Betsy a vedere Sometime Sweet Susan) che diventa l’unico, possibile, luogo di fuga. L’immagine di De Niro mentre guarda il film sembra replicare quella di un altro suo personaggio di un film che ha interpretato nello stesso anno, Gli ultimi fuochi di Kazan in cui ha portato sullo schermo il dittatoriale produttore Monroe Stahr. La luce, il buio. Tutto comincia da lì. E da lì parte anche Taxi Driver, tra i film più significativi del cinema americano degli ultimi cinquant’anni.

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