Timothée Chalamet fa Dylan, anzi, “è” Dylan. Sarà un campione, forse il campione, della sua generazione. Di Pino Farinotti.
Quante strade deve percorrere un uomo
Prima che lo si possa chiamare uomo?
Sì, e quanti mari deve navigare una bianca colomba
Prima che possa riposare nella sabbia?
Sì, e quante volte le palle di cannone dovranno volare
Prima che siano per sempre bandite?
La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento
La risposta sta soffiando nel vento
Blowin’ in the Wind.
Trattasi di uno dei maggiori incanti della musica e della poesia del Novecento.
I versi di Bob Dylan, pronti, compressi nel recondito e nel cuore, uscivano prepotenti con quella voce, col supporto della chitarra e dell’armonica, strumenti, con le tastiere, che governava alla perfezione. Versi che potevano essere metafore di vita normale, come quando abbandona una ragazza che vuole imbrigliarlo “perché io ho altro da fare. Va tutto bene babe”. E centinaia di vicende così.
Johnny Cash, altro autore ribelle, dice due volte a Bob, “non stancarti di combattere i poteri forti.” Combattere i poteri forti è un dogma di chi fa arte. Ma Dylan scappava dalle solite regole, si alzava e planava con registri che potessero essere capiti da tutti.
Aveva vent’anni e stava coi giovani. Diceva, “andiamo tutti insieme, siamo tanti, siamo forti.” Dico che i giovani di adesso è bene che vedano quel film.
Si connetteranno non a internet, ma a dei valori da ritrovare e assumere, perché vanno bene, benissimo, anche adesso.
E poi Dylan possedeva una tale potenza, una forza centrifuga che, nascosta, subliminale, una parte delle sue istanze ha toccato anche i “cellularisti”.
Qualcuno diceva di lui “menestrello”. Ma no, era un “trovatore” di chanson de geste ai tempi della Magna Cartha di Giovanni senza terra.
Un mio richiamo, improprio ma non blasfemo, fatte le debite proporzioni, ma non sproporzioni, è il sogno “infinito” di Leopardi.
Studio da tutta la vita, conosco queste cose.
Ero un ragazzo, dunque nell’età vulnerabile, per dirla alla Fitzgerald, ed ero un bersaglio buono, per i “vulnus” di Bob. Scrisse "Blowin’ in the Wind" nel 1963. Era ancora il tempo della “prima” America.
Dylan era profetico. John e Bob Kennedy disegnavano il loro progetto di sogno americano, come Martin Luther King. Ma sono stati fermati.
E poi incombeva il Vietnam. In quello stesso anno elicotteri e aerei statunitensi già volavano sopra quel Paese. L’USA prima di allora aveva vinto tutte le guerre, poi le ha perse tutte, alcune pareggiate, ad essere generosi. E Dylan era lì. Attento.
A Complete Unknown (otto nomination all’Oscar) diretto da James Mangold, racconta la storia giovanile di Bob Dylan.
New York 1961. Robert Zimmarman, già Bob Dylan, arriva a New York per incontrare Woody Guthrie, suo idolo musicale. L’uomo è immobile a letto, non parla, non si muove, riesce solo a guardare. Bob ha composto una canzone per lui, prende la chitarra e gliela canta. In quelle parole e quella musica c’è già quasi tutto ciò che sarà il poeta musicista. Guthrie muove gli occhi. Segnale quasi invisibile, ma tutto comincia lì.
Ecco che Bob si sta facendo un nome nel folk e comincia a esibirsi in scenari sempre più importanti del Greenwich Village. E poi ecco un incontro che gli giova, con Joan Baez, una (quasi) sua omologa per stile e vocazione. Il loro rapporto non è solo di lavoro. Decisivo è Peter Seeger, musicista, che sarà sempre l’amico più fedele di Bob.
Gli amori ci sono, ma la presenza di Joan è troppo ingombrante. Non hanno un destino.
Il prestigioso Newport Folk Festival lo accoglie come una divinità, diventa la sua casa. Bob è una star, la condizione gli piace, ci gioca, trascura gli amici, non segue i consigli degli esperti. Ma non perde di vista la musica. Intende evolversi, si considera ancora un modello del folk tradizionale e comincia col ricorrere alla chitarra elettrica.
Tutti gli sono contro, ma ha ragione lui. Nel film passano molte delle grandi, popolari canzoni. Alcune: Dont’ Think Twice, Like a Rolling Stone, It’s All Right, Mr. Tamburine Man, Masters of War, Girl From the North Country.
La sua ricerca è intensa, e ne risente la vita privata. I contratti lo opprimono, si sente in un tunnel senza uscita. Ma alla fine la sua nuova filosofia del folk funziona. Ha, ancora, reinventato musica.
Sarà la sua amica Joan a capirlo e dargli l’indicazione giusta e liberatoria. Dopo un’ultima visita a Guthrie sale sulla moto e parte a tutta velocità.
Timothée Chalamet fa Dylan, anzi, “è” Dylan. A memoria di getto evoco solo una performance del genere, Elio Germano che è Leopardi ne Il giovane favoloso di Mario Martone.
Di Chalamet qualcuno ha detto che si tratta di un sopravvalutato. Non è così. Nel film suona tutti gli strumenti di Dylan e canta con la sua voce. Davvero non era semplice.
Presenta già una filmografia cospicua. E ogni sua partecipazione non è mai banale.
E’ un ragazzo “normale” ed è un merito in più, ha dovuto metterci più talento. Certo non è Marlon Brando, Paul Newman o Robert Redford. Non entra nelle fantasie erotiche del pubblico femminile. Ma in questa epoca il sesso è ambiguo e complicato. E’ legittimo che il cinema lo sorpassi. Nel tempo Chalamet sarà un campione, forse il campione, della sua generazione.