DOSTOEVSKIJ È LA SERIE DELLE ANOMALIE. ECCO PERCHÈ DOBBIAMO VEDERE L'ULTIMO LAVORO DEI FRATELLI D'INNOCENZO

Dal thriller poliziesco all’esistenzialismo, fino a spingersi ai limiti dell’horror, la serie è l'incontro tra Cesare Zavattini e Dario Argento. Con una grandissima interpretazione di Filippo Timi. Fino al 17 luglio al cinema.

Gabriele Prosperi, venerdì 12 luglio 2024 - Focus
Filippo Timi (51 anni) 27 febbraio 1974, Perugia (Italia) - Pesci. Interpreta Enzo Vitello nel film di Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo Dostoevskij.

Presentata in anteprima alla Berlinale, Dostoevskij ha già attirato molta attenzione. Prodotta da Sky Studios e Paco Cinematografica, la prima serie dei fratelli D’Innocenzo sarà distribuita – e qui la prima sfiziosa “anomalia” – nelle sale cinematografiche italiane in due parti da Vision Distribution, dall’11 al 17 luglio, prima di approdare sulla piattaforma Sky. Atto primo e atto secondo, con tanto d’intervallo: Dostoevskij si presenta come una serie per il cinema o un film serializzato, confondendo già all’atto della sua distribuzione i limiti formali dei due mezzi.

Fusi sono, anche, i generi coinvolti: con una narrazione che si sposta dal thriller poliziesco all’esistenzialismo, fino a spingersi ai limiti dell’horror, la serie esplora le profondità dell’animo umano attraverso un’estetica visiva cupa e desolante. La storia di Enzo Vitello, un poliziotto tormentato che si confronta con un serial killer enigmatico, si sviluppa su più livelli, offrendo una critica sociale incisiva e una meditazione sulla morte, impedendo allo spettatore di riconoscere l’eroe addirittura come antieroe, spingendo al limite il ruolo del protagonista e trasformandolo in antagonista, anzi in anti-antagonista. Vediamo come.

La narrazione epistolare
La serie si distingue per il suo formato narrativo epistolare, che diventa il fulcro della sua trama. Un serial killer, soprannominato Dostoevskij per via del suo modus operandi, lascia lettere dettagliate accanto alle sue vittime descrivendo i loro ultimi istanti, riflettendo sulla morte e sull’inconsistenza della vita, soppesando ogni parola in un complesso esercizio linguistico volto a giustificare un profondo senso di nichilismo. Il protagonista, Enzo Vitello, interpretato stupendamente da Filippo Timi, sviluppa un’ossessione per queste lettere, trovando in esse un’eco del proprio tormento interiore.

Questo scambio epistolare crea un legame ambiguo tra cacciatore e preda, trasformando ogni omicidio in una meditazione sulla condizione umana in bilico tra la vita e la morte. Le lettere diventano uno strumento narrativo, elemento caratterizzante di questa “serie ibrida”, forse l’unico in grado di conferirle il titolo di serie e rispecchiandosi, così, nella ripetitività degli omicidi. Una “serialità trasversale”, quindi, che permette agli autori di esplorare profondamente i temi esistenziali della serie, offrendo una riflessione sulla natura della vita e della morte attraverso il filtro di una mente disturbata.

Il formato epistolare aggiunge un ulteriore livello di intimità tra i due personaggi principali, Vitello e Dostoevskij, inizialmente descritti come eroe e antagonista. Questa intimità, creata dalla serialità delle lettere, permette ai caratteri dell’uno di permeare quelli dell’altro. Nonostante ciò, non si tratta di attribuire elementi positivi all’antagonista, bensì di comprendere le origini della sua follia, né di assistere alla trasformazione dell’eroe in cattivo: Vitello non incarna né i caratteri dell’eroe classico, né quelli dell’antieroe contemporaneo; scopriamo semmai un personaggio con comportamenti quasi emulativi. I fratelli D’Innocenzo, tramite l’intimità epistolare, trasformano così il protagonista da eroe/anti-eroe a una sorta di secondo antagonista, attraverso la convergenza dei due personaggi. Dostoevskij e Vitello sono Beauregard e Nessuno: così come Henry Fonda incarnava l’eroe del western classico che faceva i conti con l’anti-eroico Terence Hill in Il mio nome è nessuno, così l’enigmatico Dostoevskij deve fronteggiare una forza pari e contraria, e certamente più potente, nell’anti-antagonista incarnato da Filippo Timi, nel quale i confini tra bene e male sono quelli tra protagonista e antagonista, e in entrambi i casi vengono dapprima sfumati e infine annullati, così come quelli tra cinema e serialità.
 

In foto una scena della serie.

La poetica del dettaglio
Uno degli elementi più distintivi della serie Dostoevskij è la sua estetica visiva, che rimanda direttamente a quella già ampiamente messa in scena dai due autori – in particolar modo nel loro ultimo lavoro, America latina la quale amplifica il senso di desolazione e decadimento. Attraverso la fotografia di Matteo Cocco, i fratelli D’Innocenzo creano un mondo immerso nell’oscurità, dove le ombre dominano e ogni inquadratura è carica di pesantezza emotiva. Le location scelte, principalmente paesaggi rurali della provincia romana, rappresentano una realtà cruda e desolata che riflette lo stato d’animo dei personaggi. Luci e colori sottolineano la lotta interiore dei protagonisti: scene immerse nella penombra e tonalità fredde creano un senso di alienazione, mentre la fotografia di Cocco trasforma l’ambientazione in un antagonista connivente, con inquadrature distorte e prospettive che enfatizzano il disagio dei personaggi.

Ma è certamente l’attenzione al dettaglio e al particolare cinematografico a rendere la serie davvero interessante. I fratelli D’Innocenzo utilizzano questi strumenti per raggiungere una maggiore intimità con i personaggi. Un approccio, questo, che richiama il “pedinamento” zavattiniano, ma anziché seguire i personaggi con la macchina da presa per catturare la realtà quotidiana senza filtri, come nel Neorealismo, la macchina da presa dei fratelli D’Innocenzo li segue nel loro animo, nella loro squallida quotidianità, fatta di case cadenti, bettole e campagne desolate. Ogni elemento visivo serve a creare un’eco della psicologia dei personaggi, dalla fotografia al colore, dalle ambientazioni ai dettagli, ma è grazie a questi ultimi che entriamo, in maniera “splatter”, nella loro psiche. In altre parole, Cesare Zavattini incontra Dario Argento, e quest’ultimo soprattutto nel secondo atto, dove la narrazione diventa più cruenta, e il dettaglio e il particolare assumono significati vicini a quelli ottenuti in Profondo Rosso e Suspiria. Le inquadrature dettagliate di ferite e di attacchi violenti al corpo umano sono utilizzate non tanto per destabilizzare o stupire, ma per dare un senso ulteriore all’attacco, problematizzando quella violenza, caricandola di senso.

 

In foto una scena della serie.

Personaggi spezzati, dinamiche di genere e critica sociale
Al centro della narrazione c’è il rapporto travagliato tra Vitello e sua figlia Ambra (Carlotta Gamba). Il presente di Vitello, tormentato dal passato e da un conflitto interiore contro un’indole deprecabile, si riflette nella sua relazione con la figlia. Ambra, dipendente da droghe e in aperto conflitto con il padre, rappresenta una generazione perduta, priva di guida e supporto. Questo rapporto padre-figlia è centrale nella narrazione, e si riflette ulteriormente sulle dinamiche di genere. La narrazione mette in luce il machismo presente nel comando di polizia e nella società, esplorando come le aspettative e i ruoli di genere influenzino le percezioni e le azioni dei personaggi, puntando i riflettori sulle sfumature della mascolinità e della virilità, e mettendole così in discussione.

Parallelamente, la serie esplora il tema dell’assenza della figura genitoriale, non solo attraverso il rapporto tra Vitello e Ambra, ma anche tramite la rappresentazione degli orfanotrofi. La serie definisce un trait d’union efficacissimo tra l’assenza di una guida familiare, causata da problemi interiori e psicologici, e l’assenza di una guida istituzionale, causata da problemi sistemici e giuridici: «L’unico modo per garantire a certa gente un futuro migliore è dargli un presente terrificante» afferma uno di quei bimbi perduti. Questo parallelismo rafforza il tema della perdita e dell’alienazione sociale, mostrando le conseguenze di una società che non riesce a proteggere i suoi membri più vulnerabili: orfani e, soprattutto, orfane sociali.

Il processo di trasformazione del protagonista in antagonista si correla così a una più ampia riflessione sullo stato della società italiana: Vitello abbandona man mano la sua umanità, si estranea da ogni rapporto (familiare, amicale, professionale) e da ogni ruolo sociale, così come dal suo ruolo narrativo di eroe, tagliando di volta in volta ognuno di questi legami, fino, addirittura, a quello che lo lega con il serial killer.

Non a caso, la critica sociale in Dostoevskij si estende anche alla rappresentazione delle istituzioni. La polizia, invece di essere un baluardo di giustizia, è mostrata come un’istituzione fallimentare, incapace di proteggere e servire la comunità. Vitello e i suoi colleghi sono individui disillusi e impotenti, intrappolati in un sistema che non funziona; in particolare Antonio Bonomolo, interpretato da Federico Vanni con uno sguardo sempre perso nel passato, nel rimorso e nel rimpianto, e Fabio Bonocore, interpretato da Gabriel Montesi come un vero eroe che, messo alle strette, prova la strada dell’anti-eroismo fallendo miseramente, in una rappresentazione che evidenzia le profonde disfunzioni delle istituzioni pubbliche e il loro fallimento sistemico.

Le (con)fusioni dei gemelli D’Innocenzo
Con Dostoevskij Fabio e Damiano D’Innocenzo raffinano uno stile già evidente nelle loro prime opere, qui spingendo i limiti tradizionali della serialità per creare un prodotto che confonde generi narrativi, ruoli e formati. Seppur divisa in sei episodi, la serie Dostoevskij è anche un lungo film in due atti, e confonde ulteriormente lo spettatore con un andamento lento e meditativo all’inizio, che stabilisce un’atmosfera di immobilità e introspezione, per poi passare drasticamente a un ritmo più frenetico, grazie al montaggio di Walter Fasano. La fusione dei ritmi narrativi si associa a quella dei registri, aulico e poetico nelle lettere del killer, popolare e volgare nel quotidiano, creando un tessuto narrativo ricco e stratificato. E ancora, dal punto di vista visivo, le inquadrature sono spesso pittoriche, immersive e al contempo disturbanti.

Fusi e confusi sono i ruoli, protagonista e antagonista, carnefice e vittima; fondamentale qui l’interpretazione di Filippo Timi, che mette davvero tutto sé stesso in una performance evidentemente sfiancante, sia a livello fisico che emotivo, e quella di Carlotta Gamba, che cattura nei suoi occhi la fragilità di Ambra. Fusi tra loro i tanti riferimenti, letterari (in primis a Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij, di cui si richiamano i temi della colpa e della redenzione, della giustizia e della punizione, utilizzando il romanzo come un substrato filosofico e narrativo) e cinematografici (da True Detective a Dario Argento), con un approccio meta-narrativo che porta inevitabilmente a una riflessione sulle connessioni tra finzione e realtà, tra narrazione e vita. Con Dostoevskij, i fratelli D’Innocenzo dimostrano ancora una volta la loro capacità di creare opere che sono allo stesso tempo accessibili e profondamente intellettuali.

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