Raoul Peck si affida unicamente al lavoro del fotografo per mettere in scena il razzismo in tutta la sua evidenza. Fuori Concorso al Festival di Cannes.
Ernest Cole è stato un fotografo sudafricano, nato nel 1940 nella provincia di Transvaal e morto a New York nel 1990. In vita ha pubblicato un solo libro, “House of Bondage”, uscito nel 1967 e poi bandito dal governo, con cui ha documentato l’orrore quotidiano dell’apartheid. Fuggito dal suo paese nel ’66, Cole non ha più fatto ritorno a casa e ha vissuto da esule a New York, lasciando la fotografia diversi anni prima della morte.
Raoul Peck ne costruisce la biografia usando principalmente gli scatti (più di 60.000!) ritrovati nel 2017 nel caveau di una banca di Stoccolma, aggiungendovi un commento in prima persona dello stesso Cole, tratti da lettere o scritti a partire da riflessioni generati dalle sue immagini. La scoperta di nuovo straordinario materiale e l’esigenza di far scoprire al pubblico un artista poco noto hanno convinto il regista a fare un passo indietro e a nascondersi dietro la forza evocativa e testimoniale delle opere.
L’approccio di Peck non è rigoroso, ma sfrutta anzi fotografie, filmati d’archivio, canzoni e didascalie per restituire la condizione esistenziale del suo protagonista (nel cui volto e nel cui unico filmato esistente si percepisce un dolore insanabile), la tragedia dell’apartheid in Sud Africa e l’evoluzione di una parabola storica che ha portato alla pacificazione fra due popoli, lasciando però ferite indelebili nelle vittime.