Tra i due artisti c'è stato un sodalizio durato 50 anni, iniziato con The Last Waltz nel 1976. Robertson è stato l'unico musicista capace di scavare in profondità nelle radici degli Stati Uniti d’America. Ecco i brani che bisogna (ri)ascoltare.
Martin Scorsese non poteva che affidarsi a Robbie Robertson per la colonna sonora del suo ultimo e grandioso Killers of the Flower Moon. Non solo in virtù di un sodalizio che prosegue da mezzo secolo, ma per la conoscenza e la sensibilità da sempre dimostrata dal grande musicista verso la storia e le ragioni dei nativi americani. Nel 1994 Robertson, figlio di un’appartenente alla Nazione Mohawk, ha realizzato un album intitolato proprio Music for Native Americans: è il suo capolavoro da solista, oltre che un saggio in musica sulla cultura in via di estinzione dell’etnia oppressa nei secoli in America. Prima con i fucili dei pionieri e poi con quelli dei gangster dalla faccia gentile, al centro di Killers of the Flower Moon e della sporca storia di soldi e di petrolio immortalata da Scorsese.
La scomparsa di Robertson (nato a Toronto come Jaime Robert Klegerman, cambiò il cognome assumendo quello del padre adottivo) il 9 agosto, a 80 anni, rende la colonna sonora un lavoro postumo. Ancora una volta incentrato sui nativi americani e in particolare sul retaggio musicale della Nazione Osage, senza disdegnare iniezioni di rock-blues e il ricorso alla chitarra elettrica (Osage Oil Boom), di cui Robertson è stato da sempre maestro indiscusso e sperimentatore. Il ricordo di Scorsese – “La musica di The Band prima, e di Robbie da solista poi, sembrava provenire dal luogo più profondo del cuore di questo continente, delle sue tradizioni, tragedie e gioie” – conferma una volta di più il rapporto di profonda stima reciproca intercorso tra i due. Di Martin invece Robbie diceva che “è colui che può percepire quando qualcosa di ciò che suono ha una reale possibilità oppure sta andando nella direzione sbagliata. Gli basta darmi un segnale”.
Senza alcun pericolo di esagerare, si può tranquillamente affermare che nessuno come l’ex chitarrista e fondatore di The Band, nella storia del rock, abbia saputo scavare in profondità nelle radici degli Stati Uniti d’America e nelle incredibili e sanguinose contraddizioni di una nazione. Fin da Music from Big Pink, il capolavoro con cui The Band giunge al debutto discografico nel 1968, dopo quasi un decennio di peregrinazioni tra Canada e Usa, Robertson - insieme a straordinari musicisti come Garth Hudson, Richard Manuel, Rick Danko e Levon Helm - restituisce schegge di un’America ancestrale e le trasforma in melodie per la generazione di Woodstock, in un cortocircuito tra passato e presente senza eguali.
The Weight o The Night They Drove Old Dixie Down sono inni senza tempo, che non conoscono la senescenza e anche oggi girano su Spotify, aprendo gli occhi a nuovi iniziati. Proprio dalla fine di The Band ha inizio la collaborazione tra Martin e Robbie, ossia quando il primo nel 1976 gira The Last Waltz (per finirlo due anni più tardi), cronistoria dell’atto finale dal vivo del gruppo. A detta di molti, si tratta del miglior documentario musicale di sempre. Nel giro di quattro anni Robbie diventa curatore, producer o autore prediletto da Scorsese, che ricorre a lui in varie vesti per le colonne sonore che verranno. A cominciare da Toro scatenato e Re per una notte, fino alla sequenza irripetibile di Shutter Island, The Wolf of Wall Street, Silence e The Irishman (guarda la video recensione), Robertson è l’uomo dal tocco magico e inconfondibile, il crocevia tra rock e folk delle molte etnie d’America, a cui Scorsese consegna la chiave sonora dei suoi capolavori.
Talora come curatore capace di scegliere perle rock e di associarle alla scena perfetta, talaltra come compositore di nuove tessiture. Non fa eccezione Killers of the Flower Moon, intenso e variegato, che con brani come They Don’t Live Long (“Non vivono a lungo”, come crudelmente fa intendere il personaggio di Robert De Niro nel film), il blues notturno di Shame on Us o l’epilogo di Wahzhazhe (A Song for My People) allarga lo spettro multietnico di una nazione squassata dal sangue e dalle menzogne fin dalle sue origini. Un’opera grandiosa, che non sarebbe tale senza il contributo di Robertson, a cui la colonna sonora è dedicata, in ricordo di una carriera imprescindibile per chiunque ami o anche solo apprezzi la musica americana.