Al cinema da giovedì 2 febbraio il film rivelazione di questa stagione, un'opera che non ha paura di esagerare e che ha già ampiamente vinto la sua scommessa, convincendo al box office (ha incassato 4 volte tanto il costo di produzione) e portando a casa 2 Golden Globe e ben 11 nomination agli Oscar.
Chissà se qualcuno avrebbe scommesso qualcosa sulle 11 nomination agli Oscar di Everything Everywhere All at Once. Sono le stesse, per esempio, di Gandhi, Viale del tramonto, Il Padrino - Parte II, Amadeus, Chinatown, La mia Africa, Joker (guarda la video recensione) e West Side Story del 1961. E a questo punto il secondo lungometraggio diretto da the Daniels (Daniel Kwan e Daniel Scheinert) potrebbe essere il grande trionfatore della notte della 95esima edizione degli Academy Awards che si svolgerà il prossimo 12 marzo.
Comunque vada, per il film sarà un successo. Perché quando è uscito in sala per la prima volta a fine marzo negli Stati Uniti e poi per la prima volta in Italia il 6 ottobre scorso (tornerà la seconda volta il 2 febbraio) forse in pochi si sarebbero aspettati che sarebbe arrivato fino a questo punto.
Ovviamente è divisivo. C’è chi lo ha amato alla follia e c’è invece chi lo ha detestato. Al box office è andato alla grande. Costato circa 25 milioni di dollari, ne ha già incassati più di 100 in tutto il mondo e, al momento, rappresenta il più grande successo commerciale della A 24. Poi ci sono stati i Golden Globe: sei nomination e due premi vinti: Michelle Yeoh come Miglior Attrice Protagonista e Ke Huy Quan come Miglior Attore Non Protagonista.
E proprio già nella scelta del cast, Everything Everywhere All at Once, rispolvera un cinema recente ma comunque del passato che recupera contemporaneamente le geometrie wuxia di La tigre e il dragone ma anche il cocktail impazzito di generi di Grosso guaio a Chinatown attraverso le figure di Michelle Yeoh, protagonista proprio del film diretto da Ang Lee e James Hong (che interpreta il padre della protagonista) del film di John Carpenter.
In più ritornano altri frammenti del cinema anni ’80 a cominciare da Jamie Lee Curtis, la spietata ispettrice fiscale che potrebbe essere una reincarnazione horror dei film di quel decennio. Ma anche attraverso il personaggio di Waymond, il marito di Evelyn, interpretato da Ke Huy Quan, che aveva raggiunto la notorietà appena tredicenne con il ruolo di Short Round in Indiana Jones e il tempio maledetto e l’anno successivo nei panni di Richard, il giovanissimo inventore autodidatta del gruppo in I Goonies.
L’operazione è consapevole: i The Daniels citano i loro film di riferimento proprio attraverso gli attori. Everything Everywhere All at Once è un film sul cinema. In una delle sue tante vite, Evelyn è stata una star di successo. Potrebbe essere lei stessa che, alla première e seduta in platea con il pubblico, guarda il suo film finito per la prima volta. Il suo viaggio nel multiverso è diverso da quello del Doctor Strange o di Spiderman in No Way Home.
C’è sicuramente anche lo spirito della Marvel ma emerge soprattutto la natura di un cinema artigianale che fa coesistere più universi al di fuori della nostra dimensione spazio-temporale, che esplora universi paralleli per mostrare tutte le vite possibili di Evelyn, i flash del suo passato che scorre a velocità impazzita ma lasciano comunque il segno dietro i quali si nascondono tutti i film possibili che poteva diventare Everything Everywhere All at Once.
Al centro c’è comunque prima di tutto una storia di famiglia, quella di Evelyn che deve affrontare le difficoltà della vita di tutti i giorni tra i controlli fiscali della sua lavanderia a gettone, le incomprensioni con la figlia Joy che ha una relazione con un'altra ragazza e un marito che è diventato invisibile. Forse è proprio questo il primo strato narrativo del film con cui ci si riesce subito a identificare. Perché la forza del film è proprio quella di essere diretto, apparentemente complesso ma in realtà semplicissimo dove i personaggi e la storia vengono prima di tutto.
Tra i motivi del successo c’è anche quello di mescolare generi diversi ma non in maniera smaccatamente cinefila ma prima di tutto emozionale: kung-fu, dramma, commedia, fantasy, anime giapponese, action. Con lo spirito di un possibile B-movie ma anche i colori sfarzosi di Bollywood. Per questo è divertente, adrenalinico ed emozionante. Dentro c’è tanto, anche troppo. Ma è un cinema che non ha paura di esagerare. Anche per questo ci troviamo di fronte qualcosa di veramente nuovo.
Il multiverso si percepisce, anzi si riesce quasi a toccarlo con le mani. Si potrà anche essere smentiti in seguito, ma l’effetto che fa oggi Everything Everywhere All at Once è simile a quello di Matrix alla fine degli anni ’90.