MAIGRET NON È SOLO UNA PIPA. LECONTE DIRIGE UN GRANDE FILM SULLA FORMA PIÙ NOBILE D'INTELLIGENZA: L'EMPATIA

Il commissario è stato oggetto di numerosi adattamenti cinematografici e televisivi. Era necessario resuscitarlo? La risposta è davanti agli occhi, nell’incontro magistrale di due giganti: Depardieu e Simenon. Al cinema.   

Marzia Gandolfi, sabato 17 settembre 2022 - Focus
Gérard Depardieu (75 anni) 27 dicembre 1948, Châteauroux (Francia) - Capricorno. Interpreta Maigret nel film di Patrice Leconte Maigret.

“La struttura era plebea. Maigret era enorme e di ossatura robusta. Muscoli duri risaltavano sotto la giacca e deformavano in poco tempo anche i pantaloni più nuovi. […] Arrivava solido come granito e da quel momento pareva che tutto dovesse spezzarsi contro di lui, sia che avanzasse, sia che restasse piantato sulle gambe leggermente divaricate…”. Georges Simenon descriveva così il commissario Maigret in “Pietro il Lettone”, prima inchiesta del suo emblematico eroe ‘nato’ negli anni Trenta. Oggetto di numerosi adattamenti cinematografici e televisivi, incarnato negli anni da Harry Bauer, Bruno Cremer, Jean Gabin, Gino Cervi…, non sorprende vedere oggi Gérard Depardieu infilare il cappotto di Maigret, quello “pesante dal collo di velluto nero”. Maigret si offre a Depardieu come un’evidenza, si ha l’impressione che l’attore non debba fare nulla. Sullo schermo, personaggio e interprete si ergono come due torri di una cattedrale. Patrice Leconte, che ha già adattato Simenon nel passato (L’insolito caso di Mr. Hire), è l’uomo giusto per tradurre la fascinazione di quella ‘offerta’. Il suo Maigret è all’altezza della sua sensibilità, riferito per piccoli tocchi da uno sguardo dinamico e pieno di umanità. L’incarnazione minimale di Depardieu, tellurico ed evanescente insieme mentre solleva la sua massa di ghisa, fa il resto.

La sua interpretazione è coerente col metodo Maigret che consiste nel non fare niente se non osservare, registrare la vita intorno, assorbirla come una spugna, immergersi nel teatro del suo caso per comprendere meglio l’ambiente e le persone che lo abitano: la vittima, i parenti, i sospetti, i testimoni… Più che gli indizi, è la psiche umana coi suoi meccanismi che il commissario esplora. Il ‘poliziotto’ del 36 di Quai des Orfèvres è maestro di flânerie e introspezione, un uomo trasportato dalle sue intuizioni e dai suoi ricordi. Leconte pesca tra le sue inchieste quella che sottolinea meglio le sue capacità investigative e lo trova più vulnerabile, nudo senza la sua pipa (“Maigret e la giovane morta”).

Il film comincia di fatto con un medico che osserva nel commissario una lassitudine, un’inappetenza, un rallentamento, un affaticamento del cuore. Maigret è invecchiato come Depardieu, che ha dato tanto al cinema e adesso è stanco. Il suo dottore lo spinge verso la pensione. Nel frattempo dovrà smettere di fumare. Una punizione esistenziale insopportabile. Senza la sua pipa, Maigret non ha più un’àncora e non sa più cosa fare delle sue grandi mani. Non smette di annusarla, di accertarsi della sua presenza mentre avanza come un funambolo, le braccia vagamente aperte come quelle di una bilancia, per scoprire chi è la giovane donna di provincia assassinata nel suo abito da sera. Dalla nebbia gli vengono incontro i fantasmi del suo passato e Maigret finisce per indagare i suoi abissi.

Il commissario ha perso sua figlia e adesso vuole dare un nome a quella ragazza ignota e aiutarne un’altra che assomiglia alla vittima e arrotonda la vita in maniera poco raccomandabile. Maigret vuole aiutarla e vuole essere aiutato, a comprendere, a restare vivo(a), ad andare avanti.

Nell’impresa, Depardieu è all’antitesi di tutte le realizzazioni catodiche. È all’osso, è a nudo, senza trucchi o infiorettature. Le luci, le ombre, le riflessioni del commissario, che sembrano soliloqui dell’attore, il passo esitante, il fiato corto, la visione enologica del suo lavoro (carbura a vino bianco, birra o calvados a seconda dell’inchiesta…), rinnovano questa figura del polar classico francese. L’attore rispetta il personaggio e si rivela attraverso di lui.

Del resto la natura dell’interpretazione e l’appropriazione del personaggio sembrano essere il punto di partenza dell’adattamento di Leconte, che avvolge il suo eroe in una luce crepuscolare e in una Parigi fuori dal tempo che deve tanto a Simenon quanto a Modiano e alla sua poesia di mattine grigie. L’autore è più interessato al suo eroe dallo spleen tenace che all’intrigo poliziesco, che diventa un puro pretesto. Allo stesso modo Maigret è più interessato alla vittima che al colpevole. Ed è proprio questa capacità di comprendere gli altri a fare di Maigret un formidabile segugio. Maigret diventa allora un grande film su un sentimento prezioso, probabilmente la forma più nobile di intelligenza: l’empatia.

Depardieu interpreta Maigret come nessuno prima di lui. Lo riporta al cinema dopo Jean Gabin, che recitava la certezza più che il dubbio, che non contemplava mai la dimensione malinconica. Sullo schermo non abbiamo mai avuto un tale accesso all’abisso di incertezza del commissario di Simenon e a quel suo umorismo belga che decifra i misteri del mondo. “Ceci n’est pas une pipe”, si permette Maigret, rivisto da Leconte che rilegge Magritte dentro un film di atmosfera più che d’azione. “Non è una pipa” perché il commissario di Depardieu non la può più caricare, non la può più fumare. Come un quadro di Magritte, è soltanto un’immagine. Leconte restituisce a Maigret il suo posto e a quelli che si interrogano sulla necessità di resuscitarlo, la risposta è davanti agli occhi, nell’incontro magistrale di due giganti: Depardieu e Simenon.

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