NEL MIO NOME, APRIRE UN VARCO PER UN TERZO GENERE SIGNIFICA ASCOLTARE E DARE SPAZIO

Ribaltando la prospettiva rispetto a lavori analoghi, il documentario di Nicolò Bassetti indaga la transidentità raccontando gli ostacoli che si trovano nel vivere in un mondo strettamente - e ottusamente - binario. Al cinema.

Claudia Catalli, lunedì 13 giugno 2022 - Focus

Nel nostro ordinamento giuridico non c’è spazio per un terzo genere. Esordisce così, ancora prima di iniziare, il documentario Nel mio nome, che ha conquistato la star di Juno e Inception Elliot Page tanto da decidere di diventarne produttore esecutivo.

Una schermata nera riporta l’estratto di una sentenza del Tribunale di Milano in cui lo spazio per il terzo genere è negato anche qualora si dilatasse “al massimo la nozione di persona umana”. Quasi a dire che chi non si riconosce nel binarismo uomo/donna non fosse, in sostanza, neanche ascrivibile al più ampio genere umano. Simili assurdità vengono commentate in vario modo e a vario titolo nel documentario, che ha il pregio di non farsi baluardo della retorica della diversità, ma di raccontare in modo assolutamente ordinario e quotidiano storie di ragazz* che hanno scelto liberamente la propria strada, finendo per cambiare nome.

È questo che il documentario firmato Nicolò Bassetti invita a fare: pensare ai trans come a persone che scelgono di cambiare nome, più che sesso, abbracciare nuove prospettive, ampliare gli sguardi senza limitarsi a facili etichette che finiscono per definire chi non ha alcuna voglia di essere definito da uno sguardo esterno ed estraneo.

La prospettiva è nettamente ribaltata rispetto a lavori analoghi: non si raccontano tanto le difficoltà che una transizione di genere comporta, quanto gli ostacoli che si trovano nel vivere in un mondo strettamente – e ottusamente – binario.

È interessante scoprire e ascoltare le storie di Nico, 33 anni, di Leo, podcaster di 30 anni, dell’appassionat* di scrittura Andrea, 25 anni e del meccanic* artista Raff, 23 anni. Storie differenti l’una dall’altra, anche a livello spazio temporale: vengono da parti diverse d’Italia e scelgono il percorso di transizioni in tempi altrettanto diversi. Quello che sta a cuore al regista è rispettarne il racconto: dietro la macchina da presa si avverte uno sguardo insieme partecipe ed empatico, l’esperienza da regista consegue quella da genitore.

L’idea del progetto di Nicolò Bassetti, già ideatore del pluripremiato Sacro Gra di Gianfranco Rosi, è stata infatti condivisa sin dall’origine con Matteo, suo figlio transgender F to M di ventisei anni. Ecco perché, oltre la voglia di comprendere, c’è la possibilità aperta di un ascolto incondizionato. Proprio grazie a questo i protagonist* del documentario - realizzato in oltre due anni e mezzo di riprese - riescono a raccontarsi liberamente, esponendosi in tutte le loro fragilità ma anche nei punti di forza e nella voglia comune di sdrammatizzare ciò che ciascun* di loro si è trovat* a vivere.

Prima ancora che il percorso di transizione, i (pre)giudizi delle persone, dai familiari agli sconosciuti, e la pressione sociale nel dover prima corrispondere a un genere prefissato, poi rispondere a domande continue e, a volte, spiazzanti. «Ma sei maschio o femmina?» è uno dei quesiti che ricorrono nei loro racconti, uno di quelli tuttavia destinati presto a scomparire, finendo – si spera - per avere quel gusto di antico e di stantio dei tempi remoti.

L’ossessione a catalogare l’altro, per comprenderlo (o per controllarlo), è qualcosa che le nuove generazioni ripudiano e hanno imparato volentieri ad accantonare e oltrepassare. Un fenomeno importante, che il genitore/regista vuole raccontare facendosi invisibile, seguendo il film con sguardo paterno in senso affettuoso e mai paternalistico. Il giudizio è altrove, al centro del film vibrano piuttosto testimonianze e storie pulsanti di vita, corpi, desideri, riscoperte, riappropriazioni, emozioni decisamente più interessanti da esplorare della mera definizione del genere di appartenenza.

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