Un regista che con i suoi interpreti ha costruito un universo che resiste alle prove del tempo. Da Jean-Pierre Léaud a Jeanne Moreau, tanti volti che occupano un posto speciale nel cuore dei cinefili e che ora è possibile rincontrare grazie a 11 titoli disponibili in straming.
ACCEDI AI FILM | ISCRIVITI SU MYMOVIES ONE »
In principio erano Fernandel, Jouvet, Raimu, de Funès, Gabin, Simon, Arletty, Casarès… Erano gli attori del cinema francese degli anni 1955-60, mostri sacri che animavano gli schermi e ‘pesavano’ sui budget (gli stipendi erano esorbitanti e il tenore di vita sul set alto). Ma una nuova onda, un pugno di giovani autori condotti da François Truffaut, decise di voltare le spalle all’industria cinematografica, che giudicava sclerotizzata, devitalizzata e scollata dalla sua epoca. Nasce con loro il cinema moderno.
La Nouvelle Vague si produce da sola e la sua star è il regista, che scrive storie nuove per esprimere sentimenti nuovi, ispirato da attori e attrici mai visti prima sullo schermo: da Jean-Claude Brialy a Jean-Pierre Léaud, passando per Jean-Paul Belmondo, Jean-Pierre Cassel o Michel Subor, da Anna Karina a Jeanne Moreau e ancora Stéphane Audran, Bernadette Lafont, Françoise Brion, Macha Méril, Anouk Aimée.
Gli autori della Nouvelle Vague si invaghivano senza complessi dei divi di Hollywood ma non avrebbero mai lavorato con le star nazionali che associavano alla “qualità francese”, un cinema borghese e conformista stigmatizzato da Truffaut. Jean Gabin, considerato all’epoca come il “papà del cinema francese” fu assolto solo a metà e in merito al suo lavoro con Jean Renoir, loro maître à penser, e Jacques Becker, il suo profeta.
SCOPRI I FILM DI TRUFFAUT IN STREAMING SU MYMOVIES ONE
La filosofia di Truffaut era quella di filmare quello che amava e più di tutti amava gli attori, con cui ha costruito un universo che resiste alle prove del tempo e occupa un posto speciale nel cuore dei cinefili. Un mondo di personaggi fragili, maldestri, ambigui, sinceri a intermittenza ma sempre alla ricerca d’amore. Per il suo primo film nel 1959 (I quattrocento colpi) assolda un adolescente e un gruppo di artisti poco o affatto conosciuti. Il rischio paga e il pubblico accoglie con entusiasmo quella distribuzione improbabile, fatta di volti freschi e di registi compagni di giochi.
Truffaut si rivela da subito un direttore di attori sensibile e i suoi casting diventano il suo marchio di fabbrica. Nathalie Baye gli deve il suo primo ruolo, Fanny Ardant probabilmente il ruolo più bello, Bernadette Lafont la sua carriera. Fedele ai suoi interpreti, forma con loro una sorta di troupe familiare che ritorna film dopo film. Jean-Pierre Léaud, e Charles Denner, Jeanne Moreau e Claude Jade assicurano al suo cinema il tono Nouvelle Vague: qualcosa di moderno e di emancipato che piace tanto alla generazione degli anni Sessanta e non smetterà mai di piacere a quelle successive.
Truffaut sapeva imporre una frase o un gesto senza enfasi, qualche volta al limite della goffaggine, rivelando tutto lo charme di un accento o la grazia di una giovane attrice. Se il suo lavoro con gli attori tradisce l’influenza dell’Actor Studio di Lee Strasberg e di artisti come Marlon Brando, Montgomery Clift o Paul Newman, la sua originalità sta nel dirigere soprattutto attori e attrici inclassificabili, come Jean-Pierre Léaud, figura di prua di quella nuova stagione, che disattende le regole più elementari dell’arte drammatica e assume un parler faux incompatibile col naturalismo di un “certo cinema francese”. Ma negli ultimi anni della sua carriera, il regista si rivolgerà a star del box office come Gérard Depardieu, Isabelle Adjani o Catherine Deneuve, senza privarsi mai completamente della sua passione per le attrici che non lo sono. Nell’ultima avventura di Doinel (L’amore fugge), farà debuttare Dorothée, animatrice televisiva che regnava sovrana sui programmi per bambini.
I suoi attori non sono solo belli, sono spettacolari come Françoise Dorléac, sorella di Catherine Deneuve ancora sconosciuta agli spettatori. Prima di Catherine l’autore si farà stordire da Françoise, che esplode radiosa sul grande schermo e nel suo cinema (La calda amante). E quando non si innamora perdutamente delle sue attrici, di cui filma la sensualità e l’esuberanza cogliendo anche le faglie dell’anima, Truffaut recita addirittura nei suoi film, collezionando tre ruoli principali (Il ragazzo selvaggio, Effetto notte, La camera verde), qualche comparsata (Adele H, L’uomo che amava le donne…) e una (e mille) voce off. Per Spielberg volerà addirittura in America e in un film ‘alieno’ (Incontri ravvicinati del terzo tipo) che lo immagina ‘in azione’. Sorta di Indiana Jones alla ricerca di ufo e di tutto il cinema perduto, per cui trova le ‘note’ giuste e a cui presta la sua eleganza tutta francese.
Al di là del biasimo e dei dogmi della Nouvelle Vague, è nella natura del cinema produrre stelle e la generazione di Truffaut non farà eccezione. Se attori come Bardot e Delon non devono nulla a quell’onda rivoluzionaria, Moreau e Léaud ne sono l’emanazione diretta. Le personalità singolari e quella predisposizione naturale a non dissolversi mai completamente nel personaggio che stanno interpretando li predispone all’immortalità. La loro esistenza terrena, come la loro carriera, è legata invece a filo doppio alla vita e al lavoro di Truffaut. L’influenza di Antoine Doinel (da Antoine e Colette a L’amore fugge) e di Catherine (semplicemente) (Jules e Jim) sull’immaginario collettivo è tale da fare dimenticare che Jean-Pierre Léaud e Jeanne Moreau hanno collaborato attivamente con altri autori. Mai davvero emancipati dai quei ruoli simbolici incarnano probabilmente per sempre una certa idea di cinema.
Pochi attori possono vantare come Jean-Pierre Léaud di avere così profondamente ispirato un autore da divenirne il suo doppio, più o meno dichiarato. Guardare questo eterno giovane uomo inquieto sullo schermo oggi equivale a contemplare quarant’anni di cinema moderno. Perché Léaud è portatore in carne ossa e luce della storia del cinema. Con quella dizione così particolare e in antitesi con quello che insegnano nelle scuole di recitazione, con quella sua maniera di contrabbandare la sua presenza nei film, coi suoi gesti volubili, ampi e pieni di mistero, gli occhi neri e corrucciati, lo sguardo sfacciato di bambino immortale, i capelli neri e sempre lunghi, fu il corpo, il volto e la voce della Nouvelle Vague.
Jean-Pierre Léaud fa parte integrante del nostro immaginario, abbiamo l’impressione di conoscerlo intimamente e i suoi personaggi sono fantasmi familiari. Forse perché lo abbiamo visto crescere sullo schermo, letteralmente, incarnare una generazione e attraversare il cinema più bello del mondo.
Da Truffaut a Godard, da Eustache a Garrel, Léaud ha costruito una filmografia intellettuale e preziosa che si trasmette come un segreto. Ma al primo banco e nell’anima dei cinefili è accomodato e impresso con forza Antoine Doinel. Léaud ha solo quattordici anni quando diventa il protagonista di I quattrocento colpi, uno dei film fondatori della Nouvelle Vague. Adolescente in conflitto con la famiglia e la società, poi giovane uomo lunatico suscettibile di migliorarsi come di peggiorare, Léaud trova in Truffaut un padre adottivo e un mentore con cui condivide un’infanzia problematica. Da par suo l’autore fa dell’attore il suo alter ego cinematografico attraverso la saga Doinel, che proseguirà per vent’anni.
La relazione filiale con Truffaut, declinata in quattro film e un corto (Antoine e Colette, I quattrocento colpi, Baci Rubati, Non drammatizziamo è solo questione di corna, L’amore fugge), resta il grande affaire della vita professionale e affettiva di Léaud.
La morte del regista nel 1984 lo lascia inconsolabile, ponendo le basi definitive del suo mito e fissandolo per sempre come ‘Antoine Doinel’ negli occhi e nel cuore di generazioni di spettatori. Da quel momento il principale scopo della sua carriera diventa quello di emanciparsi da un passato glorioso, di esistere altrove e altrimenti, di diventare adulto. Ma le cose non sono così semplici, la critica continua a pensare a Léaud in termini strettamente referenziali, soprattutto dopo la morte di Truffaut, l’attore a sua volta resiste all’emancipazione.
Il film sepolcrale di Albert Serra lo ha recentemente riportato sullo schermo e sotto i riflettori con la sua leggenda. In La mort de Louis XIV Jean-Pierre Léaud presta il suo corpo all’agonia del Re Sole. La presenza pura e auratica del re degli attori francesi cortocircuita il film e la morte del sovrano più grande di tutti. Allungato sul letto e laconico dietro a una maschera di dolore e dignità, dispensa la grazia ‘assoluta’ della propria eternità. Nel suo personaggio si fondano insieme due miti: quello di Luigi XIV e il suo, promessi alla stessa posterità.
Il primo degli orfani di Truffaut non ha paura di esporre la sua vecchiaia, se la gioca drammaturgicamente e la mette al servizio del cinema piuttosto che dissimularla, perché ‘vivere sullo schermo’ è il suo mestiere dal 1959.
Jeanne Moreau fu la grande interprete dell’amore, del desiderio e della passione. Impossibile raccontarla senza sentire il tourbillon della vita. Il famoso ritornello scritto per Jules e Jim da Serge Rezvani. Attrice-autrice, affrontava i sentimenti con un senso di sfida, imponendo una bellezza differente dalle altre star dell’epoca. Le sue eroine erano audaci, libere, sempre seduttrici, cerebrali e ostinate a stravolgere le convenzioni. Sotto la direzione del suo primo marito e su una sceneggiatura di Truffaut, l’attrice sembrava misurare la sua leggenda, già consolidata, con quella di una figura mitica, Mata Hari.
In Mata Hari, agente segreto H21 la sua spia tradisce a forza di menzogne i suoi sentimenti e l’amore dell’uomo che ama, finendo fucilata, senza perdono e senza onore. L’interpretazione di Jeanne Moreau passa da una malizia infantile a un’indecifrabilità nera. Interpretare un ruolo fatale e maligno è un’altra forma di audacia e di coraggio che illustra bene il suo temperamento e la sua forte personalità.
Se Fassbinder metterà a profitto quella leggenda (Querelle de Brest), la sua immagine di donna con tutto il suo potere, il suo mistero e la sua libertà nasce altrove. È in Jules e Jim, dove incarna Catherine, incapace di rinunciare ragionevolmente a Jules per Jim e a Jim per Jules, che l’amour fou trova la sua interprete.
Ma Truffaut le offrirà qualche anno dopo di andare più lontano sullo stesso registro e con il personaggio di Julie Kohler (La sposa in nero), una donna che uccide gli uomini in nome del grande amore della sua vita, ‘abbattuto’ da un colpo fatale. Le esecuzioni metodiche sono una cerimonia di commemorazione, la sua Julie è la sacerdotessa di una religione devota all’essere amato al di là della morte, del bene e del male. Jeanne Moreau attraversa il film in stato di trance, è in un’altra dimensione, nell’assolutezza dell’amore. È la sola attrice che avrebbe potuto seguire Truffaut fino a quel punto. Perché la Moreau è una luce radiosa intorno alla quale gli uomini battono le ali come farfalle mentre lei ama l’uno e poi l’altro seguendo solo il ritmo del suo cuore.
Scomparsa nel 2017, Jeanne Moreau sapeva come nessuna corredare l’emozione con l’intelligenza rendendo quell’emozione incandescente. Con Truffaut sperimenta una femme fatale che pratica una seduzione autoritaria, imperiale, una donna misteriosa e perentoria che domina gli uomini come i suoi partner. Scandalosa e fiera di esserlo, si prendeva un sottile piacere sullo schermo, giocando il gioco della verità coi suoi compagni di avventura. Senza attendete la liberazione delle donne, è una donna libera al centro di un universo di uomini che si sfidano sensualmente tra loro.
Nel cinema di Truffaut come in quello degli autori che la ‘desiderano’, ha girato più di centotrenta film con i nomi più grandi del cinema (Welles, Antonioni, Fassbinder, Kazan, Wenders), impone la sua bellezza ‘spossata’ e la sua voce incantevole e immediatamente riconoscibile, impone ancora l’immagine di un’interprete che si ‘dirigeva’ da sola, che teneva i suoi ruoli come teneva il suo posto nella vita, con un’autorità naturale.
Artista totale, creatrice insaziabile, mito di un’epoca, Jeanne Moreau s’en fout e se ne va un giorno d’estate. Troppo esigente e singolare per appartenere a qualcuno, cede alla morte ma resta immortale. ‘Cede’ a Truffaut per una stagione fugace ma sufficiente a comporre un’eredità di cinema incomparabile.