ONE NATION, ONE KING, GASPARD ULLIEL TRA I GRANDI ATTORI DELLA STORIA

L'attore francese è con Louis Garrel, Adèle Haenel e tanti altri nel film di Pierre Schoeller. Una rivoluzione servita da un cast ‘nobile’ e filmata ad altezza d’uomo e di donna. GUARDA IL FILM SU BIENNALE CINEMA CHANNEL oppure ISCRIVITI SU MYMOVIES ONE.
 

Marzia Gandolfi, venerdì 7 gennaio 2022 - mymoviesone
Gaspard Ulliel 25 novembre 1984, Boulogne-Billancourt (Francia) - 19 Gennaio 2022, Grenoble (Francia). Interpreta Basile nel film di Pierre Schoeller One Nation, One King.

One Nation, One King (Un peuple et son roi) non smette mai di elogiare l’intelligenza del collettivo, evitando qualsiasi scena di massa. L’unico momento in cui mobilita un numero considerevole di comparse, la decapitazione di Luigi XVI, non serve una coreografia di massa ma offre più semplicemente un’ordinata esultanza. Quel profluvio incontrollato e indistinto di gente lo aveva già schivato Éric Rohmer nel 2001 con La nobildonna e il duca, film audace sul Terrore visto attraverso gli occhi di una bella straniera votata alla monarchia. L’inglese del titolo originale (L’Anglaise et le Duc) non faceva la storia, la rifletteva e quel riflesso era tutto il film. Nei tableaux vivants di Rohmer il popolo era ridotto a un’orda sanguinaria che cospira e mozza teste.

Pierre Schoeller propone al contrario una lettura più conforme allo spirito del 1789, appoggiandosi a solide ricerche storiche e applicando il ‘principio metonimico’ per rappresentare il popolo. Nel marasma pesca alcune figure popolari e le riunisce attorno a una bottega artigiana del vetro, dove regna la ‘trasparenza’ delle anime e la ‘fornicazione’ giubilante, trasformandole in emblemi. Pochi destini individuali sono sufficienti al regista per raccontare un’epopea collettiva, un affresco politico che analizza i meccanismi che hanno condotto la Rivoluzione francese al regicidio.

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Schoeller piazza nell’occhio del ciclone Robespierre, incarnato da Louis Garrel che infiltra la gelida impassibilità dell’incorruttibile col suo magnetismo e il suo gioco flemmatico. Se Garrel, eleganza bohème sotto la parrucca che cadrà con la testa, interpreta la ‘nobiltà di toga’ del rivoluzionario francese con la giusta dose di inquietudine, Denis Lavant, eccentrico e fantasmagorico nel ruolo dell’astuto e idealista Marat, non sembra mai dubitare di quella marcia epica verso la repubblica. Funambolo del cinema francese e figura emblematica di cinque dei sei film di Leos Carax, abita poeticamente il film di Schoeller con la bellezza del gesto e il senso del corpo versando sulle parole di Marat uno smalto beckettiano. 

Avanza agile col suo personaggio dentro la luce che cede progressivamente all’incertezza dei sensi: lo zio di Olivier Gourmet, attore fisico e passe-partout (dei Dardenne), è ‘accecato’ e il povero diavolo proscritto di Gaspard Ulliel ‘reso sordo’ da un colpo di fucile durante la presa delle Tuileries. Ma servono tutti sensi per comprendere la portata degli eventi e di eventi che portano con loro un desiderio di libertà e di autonomia, l’ineluttabilità della violenza che sfocerà presto nell’eliminazione del sovrano, a cui presta il volto Laurent Lafitte, tutto gravità e silenzio. È lui il re del titolo assediato dal suo popolo, raccolto nella bottega di Faubourg Sant-Antoine e accolto nell’Assemblea Nazionale dove si consuma il primo capitolo della Rivoluzione Francese: la formazione dell’idea di repubblica e la fine dell’infanzia di una nazione. 

In piedi sulla piazza de la Concorde, Lafitte è il contrappunto aristocratico al vagabondo di Gaspard Ulliel e alle lavandaie di Adèle Haenel e Izïa Higelin. È un re ‘senza qualità’ che prova a trovarne una nello sforzo sovraumano di restare dignitoso davanti alla ghigliottina e al suo popolo

La performance ‘regale’ dell’attore, in equilibrio instabile tra Comédie-Française e commedie popolari, comincia con la presa della Bastiglia (1879) e si conclude tragicamente con la decapitazione del suo re (1793), mettendo in forma con sottigliezza la relazione del titolo. L’aggettivo possessivo « suo » è essenziale. Il sovrano di Lafitte è consapevole di essere ormai un personaggio anacronistico, sa che non ha scelta, sa che non può più battersi, che non c’è più niente per cui battersi e lo accetta. Accetta di rinunciare al titolo di Re di Francia per diventare re dei francesi. Sembra niente ma la differenza è rilevante. Divenuto re dei francesi, Luigi XVI è subordinato al popolo, relegato allo statuto di figura sentimentale, un (s)oggetto condiviso, una figura che riunisce. 

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Ma la Storia ci dice che Luigi XVI non può essere quel re e che i francesi non possono essere quel popolo. Con la complicità di Pierre Schoeller, che non concentra il film sulla vita del sovrano, Lafitte disegna una silhouette piegata sotto il peso della dinastia, degli avi, di un’eredità e di una monarchia che ha voluto essere più assoluta delle altre, rendendo impossibile il passaggio a una monarchia parlamentare come per il Regno Unito. Lafitte indossa coi costumi d’epoca il dramma intimo della fine del regno, il sentimento di poter essere tutto e di non essere niente. Un corpo opaco che perde ineluttabilmente luminosità. Nel film Maria Antonietta e i suoi figli non sono d’altronde che ombre destinate a essere trascinate nella stessa traiettoria fatale. 

Dall’altra parte della barricata, il suo popolo è talmente affamato di potere e di desiderio di rappresentanza che non può cedere ad alcun compromesso. Il dramma della petites gens fa il paio col suo: le persone hanno bisogno di esistere. Così quando la rivoluzione si mette in marcia e la prima pietra della Bastiglia è rimossa, l’esito non potrà che essere violento e funesto. Il film sottolinea la difficoltà della rottura attraverso l’asprezza dei dibattiti che porteranno alla condanna del re. Con la descrizione intima dei movimenti politici, che non privilegia né un campo né l’altro, Schoeller si dimostra uno dei più fini osservatori dei sistemi politici contemporanei (Il ministro – L’esercizio dello Stato) e storici (Un peuple et son roi).

E ancora, si dimostra un abile direttore di attori e di attrici luminose (Adèle Haenel, Izïa Higelin, Noémie Lvovsky, Céline Sallette, Julia Artamonov) che fanno uscire dall’ombra storiografica le donne-soldato della Rivoluzione. Adèle Haenel è un superbo incrocio tra la Simone Signoret di Casco d’oro e la “Marianne parisienne”. Sotto il cappello frigio e attraverso lo sguardo chiaro rende sensibile il ruolo delle donne nella Storia, interrompendo il silenzio fallocrate degli archivi. È lei la ‘repubblica’, è lei il seme della rivoluzionaria, è lei Catherine Pochetat, Claire Lacombe, Pauline Léon e tutte le combattenti invisibili a cui il regista rende giustizia. Perché furono loro a redigere gli articoli della Dichiarazione dei Diritti della Donna e della Cittadina, primo documento a ratificare l’uguaglianza giuridica e legale delle donne in rapporto agli uomini, scuotendo per sempre la geografia del potere. Furono loro a marciare su Versailles per domandare al loro re pane, protezione e intervento, riconducendolo a Parigi, la città che incarna tutto il popolo francese.  

Gaspard Ulliel, portatore di una rabbia glamour dai tempi di Saint Laurent, si fa carico nel film e dentro la rivoluzione della vita quotidiana e di quello che la politica fa al corpo, infliggendogli indirettamente la fame e l’ingiustizia. Come tutti i personaggi, il suo Basile si politicizza al contatto con gli altri. Schoeller mostra bene il processo di circolazione delle idee che non toccano tutte e tutti alla stessa maniera ma contribuiscono allo stesso modo alla costruzione di un popolo politico.

I passaggi più belli del film sono proprio i brani di eloquenza nell’Assemblea, dove gli attori si fanno oratori a supporto di posizioni ideologiche. L’estetica del dibattito cambia con Adèle Haenel, Olivier Gourmet e Gaspard Ulliel, che incarnano più dei simboli che dei ruoli. Se la ‘caduta’ letterale della Bastiglia lascia infine passare il sole compiendo la rivoluzione - si passa dallo stato delle idee a quello di realtà - e illuminando il volto delle ‘attrici e degli attori’ di quelle straordinarie giornate insurrezionali, l’interpretazione del re di Laurent Lafitte eclissa ‘significativamente’ tutte le altre. Del resto One Nation, One King (Un peuple et son roi) è il racconto della de-simbolizzazione del corpo sovrano, una perdita di aura divina che lo esime dall’astrazione rispetto agli altri protagonisti, figure univoche che illustrano un protocollo teorico.

Contrari nelle intenzioni, Il ministro – L’esercizio dello Stato era un trattato sul cattivo governo, One Nation, One King è il suo rovescio positivo, i due titoli testimoniano lo stesso paradosso: l’abilità della sinistra intellettuale a figurarsi quello che rifiuta, la casta nemica degli oppressori, più di quelli che intende difendere. 
 

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