Alessandra Mastrorardi è l'étoile Carla Fracci in un film convenzionale che rivela i limiti di un genere, approssimativo ma durevole, che fatica a trovare una forma adeguata. Al cinema.
La vita di una étoile è materia da romanzo. Legittimo allora spingersi e spingere verso il romanzesco. La danza è una nicchia e al cinema non resta che puntare sulla ‘storia’, sulla ricerca di eccellenza di un’artista, sulle sue lotte sociali e di genere. Se poi quelle battaglie sono in risonanza coi tempi, il gioco è fatto.
Emanuele Imbucci costruisce il suo film intorno alla “danzatrice stanca” di Montale, a cui ruba la leggerezza dei versi e l’idea di una gravidanza come una ‘malattia’. Almeno per una ballerina alla fine degli anni Sessanta. Diversi anni e adagi dopo, ci penserà Alessandra Ferri a mettere in prospettiva la poesia di Montale e a raccogliere l’eredità di Carla Fracci, conciliando danza e gravidanza su un palcoscenico più progressista.
Il ritorno sulla scena dell’étoile milanese dopo la nascita del suo bambino è il centro di un biopic che ripercorre il destino leggendario di Carla Fracci, artista che ha segnato la nostra identità e contributo al prestigio della cultura italiana nel mondo. Tuttavia Carla è un film convenzionale che rivela i limiti di un genere, approssimativo ma durevole, che fatica a trovare una forma adeguata.
Carla riduce la Fracci a un racconto morale che non conduce mai a un livello superiore. Le immagini delle teche RAI, che scorrono sui titoli di coda le coreografie storiche, non fanno che testimoniare il naufragio della fiction e di un film che giudicheremmo parodico, se l’intenzione non fosse chiaramente diversa.