Quello di Julia Ducournau è un cinema furioso e visionario che esce dalla routine di ciò che è 'accettabile' in un film d’autore; è un racconto che non obbedisce ad altro che alla voglia di raccontare, nel modo più punk possibile, la storia di due anime fragili. Palma d’oro a Cannes e dal 1° ottobre al cinema.
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Ha vinto, a sorpresa e fra le polemiche – oscurate dalla gaffe del presidente di giuria Spike Lee che ha annunciato il premio al momento sbagliato – la Palma d’oro a Cannes. Ha sbigottito e indispettito Nanni Moretti, che si è sentito dare dal film, come dicono i francesi, un “coup de vieux”.
È Titane di Julia Ducournau: psycho horror, gender fluid, con scene di sesso lesbico e altre sul crinale dell’incesto. E con una scena di sesso fra una donna e una Cadillac. Ce n’è a sufficienza per chiedersi se Titane sia in ritardo su Cronenberg e Lynch, o in anticipo sul futuro.
La prima volta, l’abbiamo visto a Cannes, in una sala piena di critici molto critici, in alcuni casi apertamente ostili. Adesso Titane ci riappare davanti agli occhi. E forse riusciamo a capire meglio che è un film terribile ma anche tenero, con la sua visione selvaggia, ma mai banale. Con i suoi corpi in transizione, con le sue fughe repentine verso la violenza, o l’amore.
Due righe per riassumerne la trama: una bambina vittima di un incidente d’auto, complice una lite col padre, viene operata alla testa. Ne esce con una placca al titanio e un tatuaggio di cicatrici intorno all’orecchio. E, cosa più significativa, con un equilibrio psicologico fortemente compromesso. La rivediamo adulta, interpretata dall’esordiente Agathe Rousselle, formidabile in un ruolo quasi muto. Alexia si esibisce come ballerina alle fiere di automobili, ha una rabbia interiore pronta a esplodere, a scatenarsi in un attimo. Le basta una forcina per i capelli.
Il resto è una fantasia selvaggia, che ricorda le provocazioni di Gaspar Noè, le atmosfere gelide, al neon, di Nicolas Winding Refn, le violenze coreografate, i balletti assassini di Quentin Tarantino: una scena con una seggiola da bar rischia di divenire un cult, così come la faccia di Alexia, serial killer quasi senza motivo, che prima di uccidere dice sfinita “ma quanti siete in questa casa?”. È una delle sequenze più terrificanti e insieme divertenti del film, con Caterina Caselli che canta gridando “Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu”, seconda popstar degli anni ’60 italiani ad apparire in un film premiato ai festival internazionali, dopo “In ginocchio da te” di Gianni Morandi che dominava una scena di Parasite di Bong Joon-ho. Chissà se, come Bong Joon-ho e Morandi che si sono ritrovati e abbracciati a Venezia, si incontreranno anche Julia Ducourneau e Caterina Caselli, prima o poi.
Seguono corpi che si trasformano, corpi che si legano in misteriosi rapporti con automobili, come in Crash di Cronenberg, esseri mostruosi che si agitano nel ventre di Alexia, con olio da motore che le esce dai seni e dalla vagina. Dopo la prima parte tutto vira, in una direzione inattesa. In una storia di salvezza reciproca fra due anime perse: Alexia che cambierà nome e identità sessuale, e un vigile del fuoco macho che si inietta steroidi, interpretato da Vincent Lindon.
Allora: prima indicazione. Inutile cercare la verosimiglianza, la logica, negli eventi del film. Occorre mettere la sospensione dell’incredulità su “on”, dall’inizio alla fine, e godersi il viaggio.
Seconda indicazione: Titane si è visto gettare addosso tutti i riflettori possibili, come quelli della Cadillac contro gli occhi dello spettatore in una delle scene cult del film. Se li è visti gettare addosso perché non ha vinto un premietto in un festival marginale, ma il premio dei premi, la Palma d’oro a Cannes. La prima vinta da una donna dopo quella storica conquistata da Jane Campion per Lezioni di piano. E dunque, niente è stato perdonato alla Ducournau. C’è chi ha visto nella sua vittoria un tributo al politicamente corretto: si parla di una regista donna che racconta la storia di una protagonista donna, con una storia in cui le categorie di maschile e femminile vengono rivisitate e ridefinite. Molto, molto “cool”.
Ma la Ducournau non fa cinema per essere “cool”. Fa un cinema furibondo, un cinema di corpi, un cinema che osa. Osa soprattutto non accondiscendere alle regole non scritte del cinema “d’autore”. Non c’è bon ton nel suo cinema con i pompieri macho che ballano in stile Village People, o nella scena di un massaggio cardiaco scandito al ritmo della macarena, cantata da Vincent Lindon farfugliando parole improbabili. Non c’è bon ton negli omicidi ingiustificati del suo film, che Alexia compie a prescindere da chi sia la vittima: amiche lesbiche, un uomo bianco, un uomo di colore, la sua famiglia.
Se ragioni con le categorie del credibile, dello psicologicamente giustificato, il film non sta in piedi. Alexia non è un’eroina politicamente corretta, non è una vendicatrice delle donne. Quando una ragazza di colore viene infastidita, in un autobus, da un gruppo di giovani che non promettono niente di buono, lei la lascia sola. Non bada a salvare gli altri, è solamente impegnata nell’enorme sforzo di salvare se stessa, devastata da una maternità aliena, mentre il suo corpo subisce trasformazioni brutali, il ventre si lacera, le vene dei seni si scuriscono, olio da macchina le esce, inatteso, dal corpo. E in questo viaggio personale dentro l’orrore, si aggrappa ad un vigile del fuoco al quale fa credere di essere il figlio che, anni prima, ha perduto. Ci può essere niente di più almodovariano, di più assurdamente melodrammatico, e in fondo di più semplice? La storia di due sbandati che, contro ogni previsione, si stringono l’uno all’altra.
Titane è una poesia futurista sulle macchine, sulla diversità, sull’orrore per il proprio corpo, sull’illusione di trovare chi ci prenda, nonostante noi si sappia di essere mostruosi. È un cinema di sguardo verso l’Altro, verso l’alieno, verso il mostro: che, se lo guardi con amore, riesci ad addomesticare. È un film che racconta, nel modo più punk, la storia di due anime fragili. E per questo l’ho amato. Chissà se non farebbe lo stesso, vedendolo, anche Nanni.