Solido esercizio di commistione tra i toni del post-apocalittico e quelli del proto-cyberpunk, Mondocane segna il proseguimento della missione con la quale Matteo Rovere - qui in veste di produttore - si è messo in testa di re-iniettare l’energia di genere nel cinema italiano. Presentato alla 78. Mostra di Venezia e ora al cinema.
Solido esercizio di commistione tra i toni del post-apocalittico e quelli del proto-cyberpunk, Mondocane segna il proseguimento della missione con la quale Matteo Rovere si è messo in testa di re-iniettare l’energia di genere nel cinema italiano. Qui alla produzione dopo aver firmato Il primo re (guarda la video recensione) nel 2019, Rovere lascia il passo a un soggetto originale di Alessandro Celli, autore d’esperienza in TV e nei corti, ma al primo lungometraggio.
Quello di Mondocane è un universo rassegnato, pessimista come il genere richiede; un’ambientazione che incuriosisce, in cui Roma non è più la capitale, in cui dopo la “grande evacuazione” al massimo si può scappare in Africa, eppure la macchina da presa non si muove dagli scorci stranianti di Taranto vecchia e nuova. La prima senza legge, con le sue tribù di guerrieri e i suoi mezzi d’assalto blindati, la seconda quasi distopica nel voler ricreare una normalità da vignetta che nasconde le storture del sistema.
Film temerario e a suo modo di rottura, che come Testacalda vuole “fare la guerra”, Mondocane mette il cinema nostrano di fronte a domande spesso rimaste inespresse, e ci spinge a chiederci come alzare il livello della narrazione di genere una volta deciso di affrontarla. Le risposte non gli competono, ma il suo spirito baldanzoso è sufficiente a farci riflettere.