Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia, tre premi Oscar e una certezza: il film di Chloé Zhao, con lo “spirto guerrier ch’entro ci rugge”, lascia il segno ed emoziona. Disponibile su CHILI. GUARDALO ORA »
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Miglior film, Miglior regista, Migliore attrice: tre Oscar su sei candidature, ed è già storia del cinema - la seconda volta di un premio ad una regista donna, la prima ad un regista cinese. E prima degli Oscar, il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia, più una valanga di altri premi assortiti.
Nomadland - da oggi disponibile in streaming su CHILI - è un fenomeno, e c’entra poco la nuova apertura, soprattutto negli Stati Uniti, nei confronti delle donne e delle minoranze etniche. Chloé Zhao, che di Nomadland è regista, sceneggiatrice e montatrice, nonché produttrice insieme alla protagonista Frances McDormand, ha stravinto in forza del suo innegabile talento, già evidente nei precedenti Songs My Brother Taught Me e The Rider (guarda la video recensione): punto.
Ma il suo essere donna traspare attraverso la regia in alcune qualità che, pur non essendo esclusivamente femminili, sono spesso associate al genere muliebre, e fanno certamente parte della personalità di questa ragazza cinese di nemmeno 40 anni, minuta e delicata: ad esempio l’empatia, la gentilezza, l’eleganza. Il che non toglie che Zhao abbia un coraggio da leone nel guardare in faccia la realtà e raccontarla senza filtri edulcoranti, affrontando di petto il tema della crisi economica americana e della conseguente disoccupazione endemica in quel Paese che la regista, nata in Cina ma naturalizzata yankee, ben conosce.
Zhao racconta gli Stati Uniti come solo un immigrato sa fare: subendo la seduzione del sogno americano e allo stesso tempo raccontandone la disgregazione. Nomadland narra il presente come Woody Guthrie la Grande Depressione, e come John Steinbeck e poi John Ford il continuo spostarsi dei lavoratori a giornata in Furore: ovvero con un grande afflato poetico nati proprio dalla crudeltà delle circostanze, e con il senso di uno spazio enorme da attraversare in carovana, sui treni merci, a cavallo, a piedi, o in un van.
“Questa terra è la mia terra”, cantava Guthrie, e lo stesso fa Zhao, incarnandosi (insieme a McDormand) in Fern, la protagonista di Nomadland, che si muove continuamente sulla sua “casa mobile” svolgendo lavoretti occasionali e fermandosi in campi improvvisati popolati da gente come lei, sradicata e itinerante.
La struttura di Nomadland, che molti hanno superficialmente definito ripetitiva, è quella della ballata o del poema, torna su se stessa per ripetere, come un sonetto o un ritornello, lo stesso concetto: che non c’è fuga da se stessi ma un continuo ripercorrere le proprie tracce, in cerca di un allontanamento progressivo dalle miserie della vita e dall’attaccamento a quelle cose concrete – una casa, una famiglia – che in certe situazioni, e ad una certa età, non interessano più, diventano un bagaglio ingombrante e una zavorra.
E tuttavia il viaggio di Nomadland non perde il suo fascino, conserva una dimensione pionieristica che è parte integrante del carattere americano, e quel perdersi negli immensi spazi e lungo quelle strade che sembrano non finire mai ha qualcosa del ritorno alla natura selvaggia di “Walden, ovvero vita nei boschi” di Henry David Thoreau o della ricerca dell’annullamento di “Nelle terre estreme” di Jon Krakauer (e Sean Penn). Nomadland sa essere allo stesso tempo intimo e maestoso, meditativo e irrequieto, elegiaco e terragno. Ed è soprattutto libero, nell’immaginazione aperta di una giovane donna straniera.
Zhao non ha bisogno di accelerare il passo (eppure sarà lei a dirigere Eternals, il prossimo super hero movie della Marvel, che certamente correrà più veloce), lascia che Fern e il suo peregrinare dettino il ritmo della storia, non teme il respiro epico – perché è soprattutto di respiro che si parla in Nomadland, un respiro da ritrovare e da allargare fino a contenere un intero… continente – né la natura folk della sua impresa. Il suo è un film di quadri aperti e desolati come di spazi angusti e confinanti: non solo il van di Fern, magazzino-vita di una donna che ha perso la sua metà e con lui la sua voglia di restare, ma anche quei tremendi magazzini Amazon divisi in loculi isolati da codici a barre e numeri di spedizione.
Nomadland è un’ode allo spirito inquieto e indomito del cavallo di The Rider (guarda la video recensione), ma anche un richiamo alla tenerezza, alla solidarietà umana elementare e all’indipendenza femminile, la più radicale e irriducibile. Ma è anche una riflessione sulla fallibilità di certi miti e sulla rassegnazione che certe perdite – del lavoro, degli affetti, della giovinezza – ingenerano anche nella più resiliente delle anime. Nella sua quieta integrità, Chloé Zhao sa farti abbassare le difese emotive e portarti senza sforzo apparente al wallop emotivo finale, con la precisione di un arciere. Più che guardato (e men che meno giudicato), Nomadland è un film che va assorbito, sperimentato epidermicamente nella sua dimensione immersiva, nella sua tranquillità mai opaca, mai banale, e mai priva di quello “spirto guerrier ch’entro ci rugge”.