È uno sguardo alla Ken Loach, ma più diretto e soffice, quello con cui Phyllida Lloyd racconta la storia di Sandra, donna che deve, e vuole, ricostruire la propria vita. Al cinema.
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Sandra, la protagonista di Herself, la lei del titolo, è una donna che deve, e vuole, ricostruire la propria vita. Letteralmente, a partire da una nuova casa che tira su da zero, dalle fondazioni al tetto, con le proprie mani e con l’aiuto di alcuni amici. «Home is where the art is», dicono gli anglosassoni, la casa è dove sta il cuore, e al cinema la frase è da sempre utilizzata come sintesi del genere che ha la casa e il cuore al centro del proprio discorso: il melodramma.
La vita che verrà - Herself è però un melodramma atipico: ne possiede la trama e i personaggi – Sandra, trentenne di Dublino molestata dal marito violento, è costretta a fuggire per salvare sé stessa e le proprie figlie – e anche gli umori (urla, pianti, dolore, risentimento, resilienza, affetto…), ma non la forma e nemmeno lo spirito.
Phyllida Lloyd, già regista di Mamma mia! (2008) e The Iron Lady (2011), l’ha diretto con un realismo secco e non particolarmente articolato che mette in scena la parabola della protagonista con uno sguardo alla Ken Loach, solo meno diretto e più soffice, con l’alternarsi di momenti drammatici e altri più distesi e l’uso di canzoni pop ad alleggerire il racconto o ad assecondarne i toni più malinconici.
Sandra è una versione meno disperata delle madri sole di Ladybird Ladybird (1994) o di Io, Daniel Blake (2016) e combatte per la propria libertà e per le proprie figlie mettendo in campo la propria esasperazione e la propria sofferenza (ben indicata da una voglia sotto gli occhi mai camuffata o nascosta). Più che alla condizione di vittima di un uomo possessivo e di un sistema distorto (quale in fondo è quello prodotto da una cultura patriarcale di coercizione che la minaccia), il film si concentra soprattutto sull’idea di costruzione, sia materiale sia spirituale, e di rinascita.
La sceneggiatura scritta dalla stessa attrice protagonista, Clare Dunne, e da Malcolm Campbell insiste sui simboli di vita e di morte camuffati dalla regia nel tessuto realistico della trama: il fuoco e la cenere, ad esempio, il primo come segno di distruzione e il secondo come ripartenza, illustrano il destino di Sandra e la sua parabola narrativa. Dalla fuga all’insediamento, dalla distruzione all’apprendimento di una lezione impossibile da scordare.
C’è molto delle nuove istanze femministe, in La vita che verrà - Herself: Sandra è una donna in cerca di indipendenza; il suo rapporto travagliato coi servizi sociali e la sua solitaria ricerca di un luogo dove vivere testimoniano il classico conflitto fra individuo e società tipico ancora del melodramma; il suo spirito individualista esprime prima di tutto la necessità di affermarsi non solo come madre, ma come soggetto autonomo.
Oltre la solitudine e la sofferenza di Sandra, però, il film di Phyllida Lloyd mostra una comunità capace di accogliere, sostenere e proteggere chi soffre: ed è proprio questo senso di collettività, che dal lei passa al noi, dall’herself arriva all’ourselves, a dare senso al film, come l’amore di una madre per le sue due figlie, e viceversa, fa da modello al senso di solidarietà che dovrebbe esistere in ogni società di uomini e di donne.