THE FATHER È UN’ODISSEA NELLO SPAZIO DELLA MENTE DI ANTHONY HOPKINS. TEATRO? NO, GRANDE CINEMA

Tratto da un'opera teatrale, il film di Zeller tiene lo spettatore incollato allo schermo, incuriosito ma anche spiazzato, con un Hopkins che giganteggia mostrandosi smarrito, disarmato, confuso, e l’attimo dopo minaccioso, velenoso ancora come Hannibal Lecter. Ora al cinema.

Giovanni Bogani, mercoledì 26 maggio 2021 - Focus

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Anthony Hopkins Altri nomi: (Sir Anthony Hopkins ) (87 anni) 31 dicembre 1937, Port Talbot (Gran Bretagna) - Capricorno. Interpreta Anthony nel film di Florian Zeller The Father - Nulla è come sembra.

Arriva da noi con la luccicanza dell’Oscar vinto da Anthony Hopkins – un Oscar per il Miglior Attore che, quest’anno, era anche l’ultimo evento, dunque il più importante, della cerimonia. E mentre noi comuni mortali, in Italia, tiravamo mattina per sapere chi avrebbe vinto, lui se ne stava a casa sua, in Galles, a dormire.

Con sublime distacco dalle cose di questo mondo, il mattino dopo Hopkins avrebbe acceso il telefonino e filmato un breve messaggio di ringraziamento, mentre dietro di lui c’era un paesaggio di prati e cielo che veniva voglia di attraversarlo in bicicletta.

Arriva da noi – esclusivamente nelle sale: dal 20 in originale, dal 27 in versione italiana – The Father, con il prestigio dell’Oscar alla Miglior Sceneggiatura non Originale, e con quel pizzico di sospetto che si accompagna sempre ai film tratti da un’opera teatrale. Ma saranno noiosi? Saranno un diluvio di parole, due persone che si guardano negli occhi, e noi annoiati a guardare lo schermino dello smartphone.

I film tratti da opere teatrali, chi ama il cinema li vede sempre con sospetto. Perché vuole che il cinema sia cinema, e non teatro filmato, come ancora troppo cinema e troppa tv. Chi ama il cinema è affamato di immagini, vuole girellare nelle inquadrature come un cane in un bosco.

Beh, una notizia: questo è cinema. Ed è grande cinema. Perché quello che vedi ti fa stare incollato allo schermo, e perché quello che vedi ti sorprende sempre. È grande cinema anche se non ci sono effetti speciali, anche se non ci sono esterni se non per trenta secondi nei titoli di testa. Ma è grande cinema, è un po’ Shining e un po’ Luis Bunuel. È la storia di una disgregazione umana. È un puzzle si ricompone nella mente dello spettatore, mentre il personaggio segue il percorso inverso, si sfalda, si sgretola, si scompone come il computer Hal 9000 di 2001: Odissea nello spazio.

È un’odissea nello spazio della mente del protagonista, The Father. Uno spazio nel quale non ci sono riferimenti certi. Anthony Hopkins si aggira fra le stanze della sua casa come Jack Nicholson nei corridoi dell’Overlook Hotel. No, non ci sono corridoi interminabili, qui: bastano un po’ di stanze, e ogni porta può spalancare un abisso.

Inutile dire quanto sia bravo Anthony Hopkins, lo scriveranno tutti. Sul suo volto lascia affiorare intelligenza, smarrimento, euforia, disperazione, sex appeal. La scena in cui incontra la giovane caregiver, bionda, ventenne, già preparata alle stranezze del vecchio, e in cui tuttavia riesce a sorprenderla mille volte, in cui riesce a essere divertente, leggero, spiritoso, sensuale, imbarazzante, patetico, e improvvisamente sgarbato, adirato, passando da uno stato d’animo all’altro con una velocità stupefacente, è da manuale. Hopkins riesce a essere smarrito, disarmato, confuso, e l’attimo dopo minaccioso, velenoso ancora come Hannibal Lecter. E poi crolla ancora

Ma non è quanto sia bravo Hopkins il punto. O quanto sia brava Olivia Colman, nel ruolo della figlia – e lo è, enormemente: un misto di dolore, premura, rassegnazione, impotenza, delicatezza. Il punto è come il film riesca a rendere ogni momento inquietante, difficile da decifrare per lo spettatore. È come se fosse una continua soggettiva della mente di Hopkins.

I piani della realtà vengono rovesciati di continuo, come in un film di Luis Bunuel: Hopkins trova sconosciuti seduti in casa sua, vede entrare dalla porta una figlia che non ha l’aspetto della figlia con cui ha parlato un attimo prima.

Ma non ci sono soltanto le soggettive – chiamiamole così – di Hopkins: ci sono anche quelle di Olivia Colman, a complicare le cose. E niente ci fa capire che cosa è vero e che cosa non lo è. Come se il film fosse un Rashomon dove devi scoprire, in ogni momento, se quello che vedi è vero o no.

E tutto, raccontato con una fotografia nitida, senza ambiguità, senza ombre profonde, luminosa e gentile come in un film di Ken Loach. I colori pastello di una casa di bambole, o forse di una casa di riposo. Una luce che non ha ore, come se fosse sempre un eterno mattino, o un’eterna sera: Hopkins cerca continuamente l’orologio, ma c’è sempre luce, come in Insomnia di Christopher Nolan, e in entrambi i casi il protagonista perde le coordinate, i punti di riferimento, il lume della ragione.

Sono tanti i film sull’Alzheimer, o in generale sulla ineluttabilità di un processo degenerativo, che abbiamo visto negli ultimi anni, e molti erano belli: Still Alice con Julianne Moore, Ella & John di Paolo Virzì, Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni, con un meraviglioso Giuliano Montaldo. O Le pagine della nostra vita, con una pazzesca Gena Rowlands. E viene da pensare anche allo sguardo verso l’ineluttabile proposto da Amour di Haneke. The Father, in questa compagnia, si conquista un posto suo, importantissimo, per come riesce a rappresentare l’esplodere, lo sfaldarsi, come in un quadro cubista, dei piani di realtà.

All’inizio si accennava ai film tratti da opere teatrali. Si potrebbe pensare che non ci sia regia, che la macchina da presa sia invisibile. Beh, non lo è del tutto. Ci sono lenti movimenti in avvicinamento ai personaggi, non motivati da niente, solo un avvicinamento dell’attenzione, un sottolineare l’istante. E altre carrellate a seguire Hopkins che va nei corridoi di quella casa che prima appare come la sua, poi come quella della figlia, poi…

E a proposito di teatro, accenniamo di sfuggita al fatto che qualcuno, su questo testo, aveva visto giusto. Quel matto di Alessandro Haber, che The Father lo ha portato a teatro in tempi non sospetti, grazie all’intuito da produttrice di Federica Vincenti. Per due stagioni, il ruolo di Hopkins, il suo smarrimento, il suo dibattersi contro un mondo che si sgretola, Haber lo ha ciabattato sui palcoscenici di mezza Italia. Schegge di un maledetto talento che dissipa, da anni, nei modi più fantasiosi e dannati.

Non è, The Father, soltanto un film astratto. Basterebbe pensare alla pregnanza, al senso di protezione, di accoglienza che danno, nel film, le frasi vuole una tazza di tè? e hai fame?. L’unico modo per comunicare, quando tutto il resto fluttua nell’incomprensibile, l’unico modo per amare è chiedere vuoi ancora un po’ di pollo?.

Mi sento come se stessi perdendo le foglie, dice Hopkins, nel momento in cui prende coscienza di essersi dissolto. È il momento più straziante, quello della resa, dopo avere combattuto con mille stratagemmi per non arrendersi alla realtà, per inventarsi realtà parallele, per rendere vivo chi vivo non è più, mille stratagemmi per aggiustare la realtà, per fare ricomparire una figlia, per trasformare il presente sgradevole nella propria vita di sempre. Alla fine si arrende. Non so se sono pronto a…, dice. Quello che viene invitato a fare è una passeggiata nel parco. Ma forse è anche qualche cosa d’altro. È di fronte alla porta dello spavento supremo, come cantava Franco Battiato. Di fronte allo spavento supremo, torneremo bambini, e anche a ottant’anni desidereremo che venga a prenderci la mamma.

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