BUIO, DIETRO I CANONI DEL THRILLER UNA METAFORA CORAGGIOSA DELL’OPPRESSIONE DI GENERE

Un film che si nasconde per poi rivelarsi, pianta saldamente i piedi nel genere ma al tempo stesso riesce a suggerire qualcosa di più sottile. In streaming dal 7 al 31 maggio nella Sala virtuale di MYmovies. Acquista €4,90 »

Tommaso Tocci, giovedì 7 maggio 2020 - mymovieslive

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L’esordio alla regia di Emanuela Rossi, presentato nel 2019 nella sezione Alice nella città della Festa del Cinema di Roma e ora in arrivo nella Sala virtuale di MYmovies, è un film che inganna e che si nasconde, per poi rivelarsi. Come sempre più cinema italiano, per fortuna, Buio pianta saldamente i piedi nel genere, ma al tempo stesso riesce a suggerire qualcosa di più sottile.


Tra le ambientazioni del filone thriller e post-apocalittico, quella dello spazio domestico ridotto a bunker per difenderci dai disastri esterni è una delle più floride in questo inizio di ventunesimo secolo.
Tommaso Tocci, MYmovies.it

Tipicamente si fonda sulla tensione tra il trauma del catastrofismo - che rielabora due decenni burrascosi di Storia, punta alle stelle ma segretamente cerca riparo e silenzio - e il collasso della fiducia, che fa sì che a tenerci chiusi dentro il rifugio sia sempre l’inganno e la menzogna.

Da Panic Room a Room, sostituendo il panico con la resistenza; dalle inversioni tra sopra e sotto di 10 Cloverfield Lane fino agli spin-off “sensoriali” di Bird box e A Quiet Place dai misteri di Shyamalan agli esempi di cinema europeo, con meno disastri e più perversione, su tutti Dogtooth di Yorgos Lanthimos.

Coordinate filmiche tra cui si muove Emanuela Rossi nel suo Buio, e che a volte sembrano ripercorse anche troppo fedelmente. Sono protagoniste tre sorelle (Denise Tantucci, Gaia Bocci ed Olimpia Tosatto), e del resto la costrizione-liberazione del rifugio è spesso declinata in chiave femminile in questi film. Con loro c’è un padre severo, totalizzante, ma non privo di sentimenti, che rientra a casa ogni giorno raccontando di una terribile apocalisse “là fuori”, provocata da un sole malato che richiede sofferenze certamente proibitive per delle giovani donne come Stella, Aria e Luce.

Se i binari narrativi sono giocoforza limitati e visibili allo spettatore fin dall’inizio, l’interesse del film sta nel modo in cui Rossi li utilizza per ripensare lo spazio urbano (sotto questo aspetto in curioso tandem con un altro film coraggioso proveniente da Alice nella città, Le Metamorfosi) e domestico nell’immaginario italiano, oltre il punto di rottura della società.

Anche grazie al lavoro sui costumi e sulla scenografia, passato e futuro collassano l’uno nell’altro, in un memorabile patchwork di tute protettive e abiti angelici, mobilio antiquato e modernismo al neon, musica classica e rap improvvisi. Il tutto sullo sfondo di una delle città più dark e misteriose del paese, Torino, qui cancellata come presenza attiva dal tabù di un mondo in rovina, eppure pulsante attraverso i muri della villa di Moncalieri dove il film è stato girato.

Grazie all’inventiva dal punto di vista stilistico e del décor, questa storia di un rapporto tra figlie e padre, di ribellione a un patriarcato lasciato senza contrappesi, acquista risonanza ben oltre le consuete logiche dentro-fuori e sopra-sotto del cinema globale. Diventa anzi una metafora coraggiosa dell’oppressione di genere nei suoi tratti più italiani e dunque più rilevanti. Non è un caso che Valerio Binasco, nel ruolo del padre, guadagni mille sfumature di repulsione e sentimentalismo col procedere della storia, laddove invece appariva monocorde nelle prime sequenze in cui la sua autorità è più secca e impersonale, quasi recitata dal personaggio prima che dall’attore.

Liberarsi dal giogo del patriarcato, sembra dirci Rossi, non passa solo dal conflitto e dall’opposizione. Richiede invece un confronto con un retaggio culturale melodrammatico, immaginifico e un po’ patetico.

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