Ladj Ly racconta la periferia di Montfermeil, un’altra Gomorra senza bellezza e senza speranza, la sua complessità, la sua ferocia, le sue leggi. Disponibile in streaming su MioCinema. GUARDALO SUBITO SU MIOCINEMA
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Si inizia con la felicità. Un’enorme, possente vibrazione collettiva. Parigi, la Francia ha vinto i Mondiali. Bandiere tricolori ovunque, una folla che ribolle di gioia e di grida. Un immenso respiro collettivo. Volti, sorrisi, grida. Forse sono qui, in questa gioia collettiva, in questo enorme sussulto di emozione, le parole chiave della rivoluzione francese: liberté, egalité, fraternité. Vediamo la folla, l’Arc de triomphe. E mentre vibriamo anche noi di questa gioia, imponente, implacabile, il titolo: I miserabili.
È una bellissima sequenza di apertura, col titolo che cala come una ghigliottina, implacabile, a rovesciare il colore emotivo delle immagini che stiamo vedendo.
Eccolo, il film che ha vinto a Cannes il Premio della Giuria, il film che ha travolto pubblico e critica francesi, che ha dardeggiato, con la sua forza, fra i film candidati all’Oscar per il Miglior Film Internazionale. I miserabili non è una versione aggiornata e riadattata del grande romanzo popolare di Victor Hugo: è un film d’esordio teso, un pugno dritto in faccia.
Il pugno lo sferra Ladj Ly, regista di origine maliana al suo esordio nel lungometraggio. Ma non è un ragazzino, ha quarant’anni, alle spalle molti premi per i suoi documentari. E sulla pelle e negli occhi ha quella banlieue. A Montfermeil, hinterland parigino, 40 chilometri dalla capitale, lui è cresciuto, lì ha visto scoppiare i disordini nel 2005, ci ha fatto un film documentario, 365 jours à Clichy-Montfermeil. E in quei luoghi è anche finito nei guai con la giustizia, per oltraggio alle forze dell’ordine.
Montfermeil è un’altra Gomorra senza bellezza e senza speranza, che Ladj Ly racconta con attenzione alla sua complessità, alla sua ferocia, alle sue leggi. A Montfermeil – dove, per un gioco del caso, Victor Hugo ha ambientato alcune pagine dei "Miserabili" – vive il ragazzino Issa, uno dei milioni di dimenticati da Dio, di "olvidados", come nel film di Luis Bunuel. Lì arriva Stéphane, poliziotto appena assegnato alla Brigata anti criminalità: poliziotti senza divisa, con un’auto senza insegne, in strade senza regole. Non ha neanche il tempo di ambientarsi e viene subito immerso, sommerso, travolto dalle tensioni del quartiere.
Viene da pensare a Training Day di Antoine Fuqua, con Denzel Washington e Ethan Hawke poliziotto "da svezzare", in un giorno devastante di perdita dell’innocenza. E in effetti, anche qui si tratta di qualcosa di simile. Ma nei film polizieschi americani, i poliziotti sono due: qui sono tre. Stéphane, interpretato da Damien Bonnard, sta sul sedile di dietro, un po’ come noi spettatori. Guarderemo la vicenda con i suoi occhi. Con lui, un poliziotto di origine africana, Gwada – Djibril Zonga, ex calciatore, fisico imponente, da anni amico di Ladj Ly – e Chris, bianco e razzista, interpretato da Alexis Manenti, che del film è anche co-sceneggiatore. Non è una differenza da poco, il fatto che i poliziotti siano tre: la dinamica "poliziotto buono/poliziotto cattivo" qui si fa più sfumata e complessa. E forse, in questo film buoni e cattivi non ce ne sono: niente è così semplice. La banlieue è un sistema complesso, come la felicità.
Il film è come una mappa, un mosaico. Che mostra, piano piano, tutti i rapporti umani, religiosi, ideologici che si intrecciano nella città. Ci sono i poliziotti, ci sono i ragazzini come Issa, c’è un boss del quartiere che chiamano "il Sindaco", che tiene i rapporti fra polizia e comunità locale, e gestisce i traffici nel quartiere; ci sono gli imam del quartiere, tendenzialmente non violenti; c’è un ex jihadista, Salah, che ora ha un negozietto di kebab, ed è rispettato da tutti; ci sono i rom di un circo ambulante che si chiama "Zeffirelli" – chissà se con qualche intenzione.
Appena il tempo di entrare in questo mondo, e un episodio rischia di scatenare una violenza indicibile: un cucciolo di leone sparisce dal circo, e non è cosa da nulla. Occorre ritrovarlo, se non si vuole vedere esplodere quell’universo. Non è che il primo movimento della sinfonia della violenza che suona Ladj Ly: che racconta tutto con un ritmo veloce ma non convulso, con immagini dinamiche ma non "sporche". Insieme al direttore della fotografia Julien Poupard, non si lascia fregare dall’estetica del "vissuto", del traballante, della macchina a spalla quando non serve. Cerca il Cinema, quando si inoltra con lucidità nella Babele di Montfermeil, immensa prigione a cielo aperto. Fino al momento in cui le immagini si alzano, prendono un punto di vista nuovo: quello di un drone, manovrato da un ragazzino, un nerd di quartiere. Un drone che vede qualcosa che non doveva vedere.
Siamo all’ultimo atto. Se il ragazzino con gli occhiali che manovra il drone ricorda un piccolo Spike Lee, è tutto il film che ricorda Fa’ la cosa giusta del regista afroamericano: anche lì c’erano vari gruppi etnici, anche lì c’era un equilibrio precario, anche lì la tensione cresce, cresce, cresce.
Non è uno sprovveduto, Ladj Ly, e lo si vede in alcune scelte: il tappeto musicale, per esempio. Potremmo immaginare rap a palla, come in altri film del genere: e invece sceglie le sonorità elettroniche dei Pink Noise. E convince anche la scelta di mettere il naso anche in casa dei poliziotti, frugando nella loro umanità, sia pure per pochi istanti.
Del film, ci porteremo dietro lo sguardo teso di Damien Bonnard, come a fiutare da dove possa arrivare il pericolo; la tensione palpabile nel negozietto di kebab di Salah, l’ex jihadista che la sa lunga sulla violenza, specialmente ora che l’ha abbandonata; il furore dei rom del circo Zeffirelli, i muscoli del "Sindaco" interpretato da Steve Tientcheu, che sembra tenere in pugno quel microcosmo pronto a esplodere. E la sensazione che Montfermeil sia lo specchio di ogni banlieue francese, di ogni periferia di ogni città dell’Occidente.