Il regista si muove tra due registri per dare vita ad un prodotto contemporaneo. Al cinema.
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Fin dalla prima sequenza, dove la vecchia mafia e la nuova Cosa Nostra stanno cercando di accordarsi sul traffico di droga, nel contesto della festa palermitana di Santa Rosalia, Marco Bellocchio esplicita il suo intento. Quello di lavorare sulla dimensione teatrale del gesto mafioso. In effetti, uno dei criminali afferma da subito, rispondendo ai dubbi di Buscetta sulla credibilità del patto che si stava stringendo, "è tutto teatro".
I personaggi - e non è certo la prima volta in Bellocchio - recitano continuamente una parte, sia all'interno della comunità criminale sia nei luoghi pubblici dove devono esplicitare un'identità. In questo modo, il tribunale - che occupa quasi metà del film, come set e come arena - è il luogo performativo per eccellenza, non importa se sia aperto al pubblico o chiuso in un bunker. Il confronto a due tra il "traditore" Buscetta e i giudici, o tra Buscetta e gli ex compagni, o persino tra Buscetta e Riina, diventano segni recitativi enfatici e lirici (altra tradizione, quest'ultima, nel DNA di Bellocchio, che ne utilizza il repertorio e la tradizione per esprimere alcune delle immagini più trasparenti, potenti del film, come la lettura delle sentenze del maxi-processo coperte dal Va' pensiero). Questo per il teatro. Per il cinema, invece, si apre un confronto molto più complesso, e certamente meno previsto per Marco Bellocchio. Il regista piacentino ha confessato in pubblico che Il traditore doveva essere inizialmente una mini-serie - e chissà che non sia questo il motivo per la scelta di focali corte e piani ristretti, oltre che per il tipo di immagine utilizzata, volutamente piena di aloni ed effetti televisivi. Poi che si è trasformato in un singolo film, che al primo montaggio era molto lungo, quindi tagliato fino a raggiungere le due ore e mezza con cui lo vediamo oggi nelle sale.
Se insistiamo con questi dettagli tecnici e di durata, è perché Bellocchio sembra voler - o dover, visto l'alto budget e la destinazione internazionale - dialogare con l'impianto del genere crime contemporaneo. Oggi con crime si identifica uno dei generi più fortunati per la produzione globale cinematografica e televisiva, da Gomorra a Narcos, passando per i tanti gangster movies che si realizzano continuamente tutti gli anni in tutto il mondo. Il traditore non può non tenere conto di questo sfondo, ed è davvero inedito vedere Bellocchio alle prese con sparatorie, scene d'azione, biografie criminali, passaggi narrativi e di montaggio tipici di questo filone, senza dimenticare sullo sfondo qualche ricordo del modo in cui Paolo Sorrentino ha utilizzato le scritte e la grafica in Il divo. C'è di più. I registi italiani del cinema civile dell'epoca d'oro degli anni Sessanta e Settanta - i sempre citati Francesco Rosi ed Elio Petri - hanno spesso utilizzato la cronaca come modello di sperimentazione linguistica ed espressiva. Basta osservare altre importanti sequenze in tribunale della nostra storia del cinema, come quelle di Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, per rendersi conto che da sempre si è cercato di ibridare linguaggi giornalistici, cinema epico, straniamento e autorialismo. In fondo Bellocchio, nel suo mescolare identità performativa italiana, genere crime, e tradizione civile del nostro cinema, non ha fatto altro che rinnovare quest'ultima, con il plauso delle audience internazionali che ci concedono il primato nella rappresentazione di uno dei nostri prodotti tragicamente più immortali: la mafia.