Jia Zhang-ke si serve della propria filmografia per viaggiare nel tempo e nel passato, suo ma anche della Cina intera. Applaudito a Cannes e dal 9 maggio al cinema.
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Il cinema di Hong Kong è spesso rimasto come sottotesto, presente ma quasi invisibile, nei film di Jia Zhang-ke. Talora - tramite il lavoro del suo direttore di fotografia hongkonghese Yu Li-kwai, autore di pregevoli e poco conosciuti lavori come regista - il sottotesto emerge in maniera compiuta, per divenire qualcosa di più. Fino a I figli del fiume giallo (in originale Jiang hu er nü, nel titolo internazionale Ash is the Purest White), in cui l'influenza diviene omaggio esplicito, voluto e conclamato. Per la sua opera-mondo, dalla complessità stratificata, Jia sceglie di aprire su quelle impressioni lontane, su quelle sensazioni mediate dalla settima arte, che ha contribuito a creare una Hong Kong virtuale, non esistente sul piano reale ma presente nell'immaginario collettivo. Fatta di colpi di pistola, luci al neon, musica cantopop.
Jia adotta un procedimento simile: pone al centro il jiang hu e le sue regole dell'onore, che la Triade ha ereditato dall'antichità e dal mondo delle arti marziali, così da rendere il sottobosco criminale un punto di vista privilegiato per guardare alla nazione nel suo complesso, storico e geopolitico. E alla storia della sua cinematografia, che passa anche attraverso il cameo riservato a tre registi dell'ultima generazione: Diao Yinan, Zhang Yibai e Feng Xiaogang (ma la parte recitata da quest'ultimo è stata rimossa dalla versione uscita in sala, come conseguenza dei problemi occorsi tra Feng e il governo di Pechino).
Ma il globale procede di pari passo con il particulare, la dimensione pubblica con quella intima. In I figli del fiume giallo si alternano infatti cinque formati differenti, dal DV al Digibeta fino all'alta definizione e alla pellicola 35mm, per raccontare un excursus che riguarda la carriera precedente del regista e la sua stessa vita, in un intreccio inscindibile, degno di Truffaut.
La prima scena del film è costituita da un girato risalente al lontano 2001 e realizzato nei luoghi da cui Jia proviene, da Fenyang nello Shanxi. È l'inizio di un viaggio a ritroso che utilizza la filmografia del regista per ricostruire quel che oggi sono diventati lui, lei e la Cina. Dove "lei" è Zhao Tao, moglie, musa e protagonista di molti film del regista. Spesso nel ruolo di una insegnante di ballo, la professione che Zhao svolgeva prima di conoscere Jia e di essere convinta da lui a diventare attrice professionista.
Realtà e finzione sono in continuo cortocircuito in I figli del fiume giallo. Anche Qiao è una ballerina, ma quando si tratta di aderire al jiang hu lo fa con abnegazione: lo deve a un padre minatore, bisognoso di sostegno economico, e a un amante boss della mala. Il suo continuo sacrificio però - il carcere, le umiliazioni subite - non tratteggia il percorso di un martirio. Qiao resta forte e indomita, resiliente di fronte alle ingiustizie della Cina che cambia, che cresce e calpesta ogni cosa. Al contrario Bin si adatta al presente, si fa trascinare dalla corrente; Qiao, invece, come una diga, ha il compito di ricomporre, ricostruire, di dare un senso a un progetto.
Anche nella regione delle Tre Gole è una diga a cambiare le vite dei suoi abitanti: ed è lì che si reca Qiao, seguendo gli stessi passi e frequentando gli stessi luoghi della protagonista (da lei interpretata) di Still Life. Come Dale Cooper nei boschi di Twin Peaks o gli Avengers nel recente e fortunatissimo Avengers: Endgame anche Qiao utilizza il cinema per viaggiare nel tempo. E, forse, per riscriverne il finale.