Il film di Alexis Michalik sintetizza con grazia e divertimento oltre un secolo di spinose sfumature. Campione di incassi in Francia e da oggi al cinema.
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Un grande successo di pubblico, basato su un grande successo di pubblico, che drammatizza un grande successo di pubblico: Cyrano mon amour è un enorme gioco di specchi dentro cui si muove l'interpretazione vincente di un momento culturale attraverso le epoche. Ma a quale costo? Il regista Alexis Michalik, che come il suo Edmond Rostand, un po' vero e un po' fittizio, ha conosciuto il successo come autore teatrale da giovane, non ne fa mistero: l'ispirazione viene da Shakespeare in Love, che sul finire del secolo scorso trovava la chiave più adatta per re-interpretare in chiave pop l'autore di Romeo e Giulietta mescolandolo al suo stesso testo. È l'anacronismo definitivo in un periodo che aveva portato la frizione temporale ai suoi limiti estremi, con Amleto che vaga nei corridoi di un Blockbuster (Hamlet di Almereyda) e Mercuzio che infiamma la notte sulla melodia di Young Hearts Run Free (Romeo + Giulietta di Luhrmann). Come è possibile, si chiede Michalik, che lo stesso trattamento non fosse mai stato riservato a un autore francese? La storia della cultura d'oltralpe, in fondo, ha saputo coniugare la ricchezza artistica con la mitologia delle epoche che l'hanno prodotta come forse nessun'altra nel panorama moderno.
Il film premio Oscar nel 1998, però, nasceva in un contesto anglosassone che storicamente vive l'ambivalenza tra alto e basso, e tra artistico e commerciale, in modo più fluido. La Francia, come del resto l'Italia, ha invece un'identità radicata nelle categorie tipiche della vecchia Europa, che costringe talvolta artisti e pubblico a schierarsi in modo programmatico.
Lo sa bene lo stesso Michalik, che ha costruito una carriera riempiendo i teatri privati ma restando fuori dalla macchina culturale francese, i cui palcoscenici pubblici esigono (e premiano con i fondi statali) opere più dichiaratamente intellettuali. Proprio questa particolarità emerge appieno in Cyrano mon amour, film di limpido appeal popolare in grado di sintetizzare oltre un secolo di spinose sfumature con grazia e divertimento. E come Rostand, nella sua Parigi immaginifica che si prepara al nuovo secolo, si lascia ispirare dalle parole d'amore indirizzate a Jeanne per popolare i cinque atti del suo Cyrano, Michalik, allo stesso modo, si lascia contagiare dal grande successo della rappresentazione datata 1897 per soddisfare sfacciatamente tutti i quadranti demografici che il cinema del 2019 richiede.
E mentre la commedia degli equivoci si incrocia con il romanticismo, mentre il name-dropping letterario blandisce gli appassionati, Cyrano mon amour riesce perfino a schivare le insidie di una gestione dei personaggi femminili che rischiava di risultare improponibile, aggiornando lo stereotipo di un uomo diviso tra due donne con una riflessione addirittura acuta sulla natura del sentimento amoroso.
E ancora, in una Parigi che più bianca non si può, è il raffinato Monsieur Honoré a svolgere il doppio ruolo di guida letteraria e coscienza artistica. Sta a lui ricordare a un gruppo di borghesi bianchi e privilegiati che il ruolo dell'artista è una vocazione di rottura, di contrapposizione al mercato, in una scena che è il culmine del pathos all'interno di un'opera che fa della brillante ricomposizione commerciale la sua unica missione.
E dunque successo sia: per l'autore che dal successo sente di essere definito, sia professionalmente che agli occhi di sua moglie; per il divo del palcoscenico che senza il successo rischia di vedersi sottrarre proprio quel palcoscenico, e che estrapola dalla mente del suo scrittore la struttura di un capolavoro in un'esilarante forma di reverse-engineering drammaturgico; e per il regista contemporaneo che sa superare tutte queste contraddizioni, specchio di uno specchio di uno specchio, nella più trascinante e vellutata delle fantasie popolari.