Non c'è solo autoironia nel film di Valeria Bruni Tedeschi, ma anche la perfetta coscienza dei meccanismi che regolano la rappresentazione della borghesia. Al cinema.
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Girava una battuta, prima dell'uscita di I villeggianti in Italia, secondo la quale basta vedere questo film per trasformarsi in gilet gialli. Ambientato all'interno della società alto borghese, intellettuale ed esclusiva del mondo autobiografico di Valeria Bruni Tedeschi, il racconto può al tempo stesso irritare o sedurre, a seconda di come lo si guarda. E nella prima ipotesi, quella cioè di essere snervati dai problemi autoreferenziali dei ricchi e degli agiati, con le loro smanie artistiche e i loro dolori raffinati, ecco che potrebbe nascere il sospetto che I villeggianti sia il film perfetto per rappresentare tutti i difetti delle élite. E scatenare immediate rivolte. Ovviamente, si scherza.
Tuttavia, spostandosi sul piano cinematografico, l'ambiguità non solo rimane, ma si moltiplica. Possibile che Valeria Bruni Tedeschi si senta autorizzata a parlare così ossessivamente (non qui per la prima volta) della sua famiglia, del suo mestiere, dei suoi amici, e di intrecciare in modo così plateale verità e finzione, a proposito della sua vita e di quella dei colleghi famosi (Valeria Golino e Riccardo Scamarcio in primis)? È in grado, questa brava attrice e regista, di reggere sulle proprie spalle le citazioni da Philippe Garrel, il cameo di Frederick Wiseman, le allusioni a La regola del gioco di Jean Renoir, il finale apertamente felliniano?
A tutte queste domande si rischierebbe di dare una risposta superficiale. Ciò che rovescia l'impianto, e che salva I villeggianti dal passatempo per snob, è proprio la consapevolezza. Non solo autoironia, dunque, ma perfetta coscienza dei meccanismi che regolano la rappresentazione della borghesia.
E così, a ben vedere, tutto il film diventa una lunare presa per i fondelli di questa società e di questo cinema. Come se, sottilmente, Valeria Bruni Tedeschi - mettendo in scena il suo personaggio di nevrotica, inadeguata, incerta - ponesse sullo stesso piano tutta la materia narrativa. Quindi non bisogna credere troppo alle citazioni, né pensare che a lei basti l'inside joke intorno al jet set del cinema italo-francese. Lo dimostra il ricorso al comico: le gag stralunate, la regia scombiccherata, la scrittura spiazzante, le singole sequenze al posto di un mosaico più fluido, il montaggio apparentemente casuale con pochi nessi di causa ed effetto tra una scena e l'altra, e così via. E la fiducia nella gag come forma di parodia, se non addirittura di sabotaggio, della credibilità dei personaggi.
È come se Valeria Bruni Tedeschi usasse il cinema d'autore come una scatola di giochi da usare in modo infantile, anarchico, quasi trasparente. Questo magari non mette al riparo I villeggianti dall'essere talora narcisista e dispersivo, ma quanto meno chiarisce che la regista, sceneggiatrice e attrice ne è consapevole, come di una pelle che non si leva se non esibendola apertamente. Quindi non fa mai del tutto sul serio, ed è la prima - per l'atteggiamento scanzonato - a non ambire a chissà quali risultati intellettuali. Per il resto, lo spettatore più ben disposto potrà in ogni caso divertirsi a cogliere le allusioni alla reale vita artistica e mondana dei protagonisti e a sfogliare la margherita delle citazioni colte, o a godere di una colonna sonora che mette insieme Nada e l'opera lirica.
Chissà per chi ha girato I villeggianti Valeria Bruni Tedeschi. Chissà se questo tipo di cinema ha ancora un pubblico, magari attratto da un cast talentuoso, ironico e affiatato (tanto da fare pensare che il set sia stato un happening non troppo diverso dalla trama). Certamente, l'eccentricità survoltata del progetto muove alla simpatia, non foss'altro che per controbattere un certo spirito anti-intellettualistico.