Con Tre volti, il regista sviluppa il percorso di tre donne appartenenti a tre generazioni diverse e rappresentanti di tre epoche diverse della storia nazionale. Dal 29 novembre al cinema.
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Invitato a Cannes, a Venezia o a Berlino, consacrato al Beaubourg e chiamato a Parigi, Jafar Panahi non può andare. Privato del suo passaporto, non può accompagnare le sue opere fuori dai confini dell'Iran. L'autore della nouvelle vague iraniana più conosciuto all'estero è prigioniero del limbo dove lo ha relegato il regime iraniano dal suo arresto e il suo processo nel 2010. Condannato a vent'anni di interdizione dalla professione e a sei di prigione, pena che non ha scontato e ha scongiurato con un versamento di 200.000 dollari di cauzione, Jafar Panahi continua malgrado tutto a girare film. Ostinato e irriducibile, per lui niente è cambiato a parte la 'taglia' della camera che impiega e dissimula in una scatola di cerini o sul cruscotto di una vettura. Messo all'angolo, l'autore converte in esauribile energia la sanzione, girando film in clandestinità e a dispetto di qualsivoglia censura.
Rovescio della medaglia del suo compatriota Asghar Farhadi, esiliato dal suo paese, Jafar Panahi, costretto alla terra natale, gira a domicilio e in una 4x4 che procede su una strada sterrata dove gli incroci sembrano impossibili. Tre volti batte un terreno conosciuto, quello dell'omaggio ad Abbas Kiarostami. I road movie esistenziali più ispirati dell'autore, morto due anni fa, (E la vita continua, Il sapore della ciliegia) abitano in filigrana il film di contrabbando di Jafar Panahi. Se Il cerchio e Offside denunciano la condizione della vita delle donne iraniane, Il palloncino bianco e Oro rosso la disuguaglianza sociale, This is not a film l'assenza totale di libertà di espressione, Tre volti registra la paralisi della classe contadina, prigioniera della sua osservanza cieca alle tradizioni ancestrali.
Nato da una suggestione pescata su Instagram, un 'messaggio' verticale in cui una ragazza supplicava l'intervento di un regista per accedere alla scuola di cinema di Teheran, Tre volti sviluppa il percorso di tre donne appartenenti a tre generazioni diverse e rappresentanti di tre epoche diverse della storia nazionale. Una richiama il passato glorioso ormai ignorato e rifiutato. A evocarlo nel film è la voce di Kobra Saeedi, star del cinema iraniano che recita un poema senza essere filmata, il divieto di 'stare in scena' le è stato imposto dopo la rivoluzione del 1979, quando fu bandita dagli schermi e dalla vita. La seconda interpreta il presente improntato al dubbio e incarnato da Behnaz Jafari, attrice conosciuta e riconosciuta da tutti fino ai confini con l'Iran, che accompagna Panahi nel viaggio per verificare se la ragazza del video è reale o se si tratti di una manipolazione. La terza rappresenta il futuro iraniano gravemente impedito. A impersonarla è Marziyeh Rezaei. La giovane attrice (nella finzione) invia un video a Behnaz Jafari che la mostra impiccata a un albero dopo il rifiuto dei genitori di lasciarle vivere la sua vocazione attoriale.
Jafar Panahi, al volante, attraversa la regione turcofona dell'Azerbaïdjan orientale per chiarire un mistero, rivendicare un'arte povera indotta dalle circostanze, riflettere sulle conseguenze tragiche dell'assenza di libertà e sui dubbi che assillano l'artista impedito di fare. This is not a film inaugurava nel 2011 un nuovo ciclo di opere dell'autore che riposano su un apparente paradosso: l'assenza fisica di Jafar Panahi. Alla poltrona di velluto rosso che resta penosamente vuota ai festival, corrisponde sullo schermo la presenza centrale dell'autore.
Il messaggio è doppio, dall'affermazione di una partecipazione fisica che rifiuta l'obbligo al silenzio, alla rivendicazione di un cinema di finzione che 'recita' il documentario per mettere in scena, senza compatimento e senza compiacenza, il dolore dell'isolamento e della proibizione. In questo senso Tre volti è un magnifico lavoro allo specchio, vincolato dalla precarietà del budget e dalle condizioni di ripresa. Jafar Panahi, interprete ideale di Jafar Panahi, conduce con minimalismo virtuoso un'avventura politica che commuta in arte la condanna a morte artistica. Confinato nella sua macchina, Panahi gira a ogni costo, rischiando la prigione per promuovere il desiderio, la parità tra i sessi, la libertà di creazione e di autodeterminazione.