Storia incredibile ma vera, il film di Spike Lee è un'opera incendiaria che segna il ritorno (alla grande) dell'autore afroamericano. Premiato a Cannes e ora al cinema.
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Impegnato da sempre contro il razzismo, il suo cinema si era fatto discreto durante i mandati di Obama ma dopo l'ascesa al potere di Donald Trump, Spike Lee risale sul ring e attacca di nuovo battaglia. BlacKkKlansman, storia incredibile ma vera di un agente di polizia afroamericano infiltrato nel Ku Klux Klan, non arriva per caso e fa fuoco sull'estrema destra americana. Agito dalle tensioni degli anni Settanta e infiammato da una partitura funky, nutre una discussione che non ha perso niente della sua urgenza e segna il ritorno di Spike Lee a una forma che non trovava più dall'eccellente ma più impersonale Inside Man (già storia di infiltrazione). BlacKkKlansman non ha ottenuto l'unanimità (critica) a Cannes per una ragione che conferma soltanto lo stato di grazia dell'autore di Fa' la cosa giusta. Le giustapposizioni facili, le allusioni trasparenti al vocabolario repubblicano, la gravezza dei manifesti militanti e delle rime rap sferzanti illustrano perfettamente quello che lo anima.
Nell'epoca di Donald Trump, la sottigliezza non è appropriata. L'America del presidente imprenditore ha abolito le sfumature, esacerbato gli animi, esaurito la pazienza, messo le migliori intenzioni con le spalle al muro. Dietro le caricature eccessive dei suprematisti c'è a ragione la volontà di creare un brusco e destabilizzante rinculo comico in risonanza totale con l'attualità americana e il riemergere dell'abiezione razzista nel Paese.
Se ci esaltiamo a guardare un fanatico della razza bianca farsi prendere per il naso dall'incarnazione stessa di tutto quello che odia, se proviamo un piacere indescrivibile a osservare Spike Lee affondare il colpo in una commedia che osa un'ironia quasi spinta, non c'è sempre da ridere, non c'è niente da ridere. Dietro l'attitudine intenzionalmente cool, dietro la dimensione deliberatamente manichea, dietro il ricorso volontariamente caricaturale, BlacKkKlansman risponde ponderatamente al film che cita a piene mani (Nascita di una nazione) in una sorta di capovolgimento retorico. L'atteggiamento può suonare anacronistico ma Lee assume il postulato che niente sia veramente cambiato da più di cent'anni, che il razzismo culturale al cuore della 'rappresentazione nemica' sia ancora vivo e operante. BlacKkKlansman dimostra insomma come la storia del razzismo negli Stati Uniti si accordi puntualmente a quella del cinema.
A partire da semplici accordi e convergenze, Spike Lee convoca un militantismo potente basato sulle contraddizioni, la concordanza dei fatti e il potere del montaggio. Da una parte BlacKkKlansman sfotte senza sosta i suprematisti Bianchi, dall'altra invita a un viaggio nostalgico negli anni della Blacksploitation, evocando la bellezza dei Neri, esortandoli alla fierezza, ed esibendoli in piani più potenti di qualsiasi manifesto. La realtà di un America mai così malata si combina con il racconto di BlacKkKlansman che si mescola con le menzogne di Nascita di una nazione.
Il montaggio, o meglio la 'rottura' della costruzione narrativa, offre un sostegno al proposito dell'autore. Se in principio era David W. Griffith, oggi finalmente è Spike Lee. Il suo BlacKkKlansman rimanda al mittente la sua ottusità, riprendendo il processo di articolazione e ricomposizione che organizza Nascita di una nazione, film geniale ma ideologicamente problematico. Lee utilizza le sue immagini per la loro portata politica, ripetendo quel montaggio parallelo di cui Griffith fu il primo grande sperimentatore. Una 'figura' che resta indissolubilmente legata alla sua maniera di (mal)trattare la Storia e che consiste nel seguire e far evolvere due situazioni che si corrispondono o si oppongono.
BlacKkKlansman schiera allora da una parte la 'messa' del KKK con battesimo delle nuove reclute e proiezione giubilante di Nascita di una nazione, dall'altra una riunione organizzata da una giovane militante nera in cui un vecchio uomo, incarnato da Harry Belafonte (primo attore nero ad aver lottato per i Diritti Civili), narra il racconto insostenibile del linciaggio di Jesse Washington, evirato, poi carbonizzato e impiccato a un albero nel 1916. L'anno dopo l'uscita di Nascita di una nazione. Nell'uso dimostrativo del montaggio parallelo, le ideologie decisamente opposte del Black Power e del KKK appaiono come linee simboliche che proseguono per la loro strada e non possono che incrociarsi per deragliamento.
Lo ribadisce l'epilogo costituito da immagini di manifestanti della supremazia bianca riuniti a Charlottesville il 12 agosto del 2017. Coi loro slogan e il loro odio hanno ucciso Heather Heyer, la giovane contromanifestante, a cui il film è dedicato. Niente è mai davvero acquisito, ci dice Spike Lee: la minaccia persiste, la croce in collina brucia ancora, David Duke, 'gran maestro' del Ku Klux Klan, sostiene la politica di Trump e l'eredità del primo presidente nero è stata già dilapidata dal suo successore. Per forza BlacKkKlansman è un film in collera e affatto misurato. Ma è necessario esserlo parlando del Ku Klux Klan? Non ne sarei così sicura. Di certo c'è solo un autore impegnato ancora una volta a fare il suo dovere, a perfezionarlo e lucidarlo fino a farlo splendere in quelle che altrimenti non sono che tenebre. God bless you.