Il suo volto stropicciato è una di quelle icone cinematografiche che regalano istantaneo spessore e umanità riconoscibile a qualunque ruolo, a qualunque film. Dal 29 agosto al cinema con Lucky.
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Quando, lo scorso settembre, Harry Dean Stanton è venuto a mancare, molti, sulla sola base del suo nome e cognome, si sono domandati chi diavolo fosse. Ma dopo aver trovato su Google la sua immagine l'hanno immediatamente riconosciuto: perché Harry Dean Stanton era uno di quei caratteristi che è impossibile dimenticare, con il suo viso lungo e scavato e la sua camminata da cowboy triste. Non è un caso che a regalargli il ruolo della vita, nonché l'ultimo di una carriera durata sessant'anni, sia stato un ottimo caratterista come lui: John Carroll Lynch, il Norman Gunderson del Fargo originale firmato dai fratelli Coen, che ha voluto Stanton - e solo lui - protagonista della commedia laconica Lucky.
In Lucky confluisce anche il silenzioso Travis Henderson di Paris, Texas, che tanto efficacemente aveva triangolato con Sam Shepard alla sceneggiatura e Wim Wenders alla regia incarnando quel tipo di solitudine western che caratterizza anche Lucky. Paris, Texas è stato il primo film a identificare correttamente Stanton come un prim'attore in grado di reggere sulle proprie spalle il peso di una storia, e sul proprio viso scavato lo sguardo insistente di una cinepresa: fino a quel momento Harry Dean era apparso in piccoli ruoli in grandi film come La calda notte dell'ispettore Tibbs e Nick Mano Fredda, Pat Garrett e Billy The Kid e Il Padrino parte II, fino al primo ruolo di rilievo nei panni dell'ingegnere di bordo Brett del primo Alien. In Repo Man - Il recuperatore era stato scritturato come "spalla" di Emilio Estevez e invece gli rubava ogni scena, così come nella teen comedy Bella in rosa giganteggiava nel ruolo del padre di Molly Ringwald.
Dalla fine degli anni Ottanta è diventato l'attore feticcio dei grandi autori: da Martin Scorsese, che l'ha voluto ne L'ultima tentazione di Cristo nel ruolo di Paolo di Tarso, a David Lynch - che appare anche in Lucky - che ha affidato a Stanton la parte del detective privato Johnnie Farragut in Cuore selvaggio, quella di Carl Rodd in Twin Peaks: Fuoco cammina con me e quella del filosofo mendicante in Inland Empire, fino a Terry Gilliam, che gli ha offerto l'indimenticabile cammeo del giudice di Paura e delirio a Las Vegas. Persino The Avengers gli hanno riservato una breve apparizione, a novant'anni compiuti, nei panni di una guardia giurata.
La sua maschera stralunata incorpora pathos e tenerezza, gentilezza e potenziale minaccia. C'è qualcosa di ruvido e profondamente virile in una faccia così, in quel procedere allampanato e spigoloso. Eppure c'è anche una dolcezza percepibile in quel sorriso sghembo, una malinconia universale in quello sguardo scuro e intenso. E se quella perfetta "faccia da cinema" non bastasse, Harry Dean Stanton ha saputo calibrare al millimetro le sue interpretazioni, lavorando in sottrazione, incarnando un minimalismo narrativo che si è sposato perfettamente con le sensibilità dei migliori registi. Il documentario Harry Dean Stanton Partly Fiction, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia del 2012, ha raccontato attraverso le parole di chi lo conosceva bene la sua lunghissima carriera di oltre 250 film e la sua personalità fragile dietro la scorza dura, oltre a quel talento misconosciuto di musicista folk che il film Lucky mette in evidenza in una struggente interpretazione di Volver.
Struggente è il termine più adatto per descrivere Harry Dean Stanton, capace di comunicare in parti uguali ironia e strazio esistenziale. Lucky è una lettera d'amore a questo hidalgo che ha saputo attraversare la sua (e nostra) vita, e il grande schermo, con la sua ombra lunga da film muto, la sua silhouette western sormontata dallo Stetson. Ed è l'ultimo regalo che questo attore generoso ha voluto fare al suo pubblico.