Ancora una volta il regista si conferma interessato a sperimentare non tanto un altro cinema possibile, ma un altro tipo di industria possibile. Al cinema.
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Se Steven Soderbergh non esistesse, bisognerebbe inventarlo. Perfetto rappresentante del cosiddetto post-cinema (contesto nel quale tutti gli steccati produttivi e tecnici diventano fluidi e migrano di piattaforma in piattaforma), il regista americano non smette di sperimentare assiduamente. Basti pensare che negli ultimi dieci anni ha girato - oltre a ben dieci lungometraggi - due serie televisive, una delle quali lunga due stagioni (The Knick, l'altra è Mosaic); un documentario (And Everything Is Going Fine), un film per la HBO (Dietro i candelabri). Si tratta di una prolificità senza eguali, ma se poi andiamo a vedere i singoli esiti scopriamo che ogni volta Soderbergh è riuscito a fare un film politico e un film sul cinema insieme. Prendiamo quest'ultimo Unsane, dove Soderbergh - non nuovo a queste imprese - ha deciso di girare un noi con un I-phone 7.
Soderbergh decide invece di scartare entrambe le opzioni, e di vedere come davvero potrebbe funzionare un thriller girato in queste condizioni. Ciò pone un evidente problema sul rapporto tra tecnica e creatività: quanto lo smartphone è una limitazione e quanto invece uno sprone alla libertà estetica? Certo, si dirà, girare un film con il telefonino avendo a disposizione un'attrice come Claire Foy è altra cosa che girarlo a casa propria con i parenti o fare un'opera sperimentale per ridurre i costi. Tuttavia, la cosa veramente importante è che Unsane sia un film riuscito. Che non sia, intendiamo, uno di quei film che valgono perché sono il risultato di un partito preso bizzarro, come i film tutti in soggettiva, o i film senza attori, o i film totalmente improvvisati, ecc. Come sempre, quindi, Soderbergh sperimenta non tanto un altro cinema possibile, ma un altro tipo di industria possibile.
Nel farlo, inserisce anche parecchi elementi caldi, dal punto di vista sociale e politico. Se la storia della donna internata e spinta alla follia richiama la raffinata cinefilia del regista (Angoscia di Cukor pare il modello più evidente), il discorso sul femminile va oltre. In epoca di "Metoo" e di sensibilizzazione sull'argomento, ciò che accade alla protagonista va al di là della semplice (e comoda) denuncia delle ingiustizie di genere, per ricordare che il sopruso si spinge fin dentro le istituzioni (quella psichiatrica è da sempre la più orribile) e fin dentro il sistema capitalista. La polemica contro il business degli psicofarmaci è materia di Soderbergh fin da Effetti collaterali e qui si intreccia agli altri, numerosi, aspetti del film.
Insomma, meglio abbandonarsi ad Unsane senza pensar troppo alle caratteristiche produttive e alla scommessa espressiva. La vera scommessa anzi è che il film funzioni al di là del (e in parte grazie al) paradosso tecnico che sta alla base del progetto.