Se Moonrise Kingdom è uno struggente canto pre-rivoluzionario, nell'ultimo film il regista si misura addirittura con la fantascienza e la distopia. Film d'apertura della 68ª Berlinale e ora al cinema.
Che Wes Anderson stia diventando un cineasta politico? Di certo non s'intende un regista militante alla Ken Loach, di quelli impegnati in battaglie che trascendono la singola pellicola e si estendono a una visione del mondo di cui l'autore incarna la filosofia. Eppure, da qualche film a questa parte - e forse proprio dalla riflessione sull'animalità e la comunità di Fantastic Mr. Fox (l'altro film di animazione del regista) - dall'apparentemente svagato Anderson ci giungono segnali di grande consapevolezza e sensibilità sociale.
Nella letteratura di genere, un racconto di questo tipo si chiama "not too distant future tale", ovvero una storia ambientata in un mondo non troppo lontano dal nostro. Si tratta di allegorie con frequenti funzioni di ammonimento, che enfatizzano ed esagerano una tendenza in atto nella società contemporanea per osservare che cosa accadrebbe se diventasse prevalente. E infatti ne L'isola dei cani è meno vicina (per noi occidentali) la situazione geografica che non la verosimiglianza degli avvenimenti.
Un leader parecchio somigliante ai nuovi dittatori del cosiddetto fascismo democratico (da Erdogan a Putin) decide di incolpare i cani per una pandemia e studia prima un esilio, e poi una soluzione finale accusandoli di qualsiasi cosa, e decidendo che solo i gatti sono degni di servire l'uomo. Se la metafora può apparire scontata, non lo è affatto, specie in un periodo - questo - dove si raffacciano l'antisemitismo e inaccettabili colpevolizzazioni degli ebrei per la Shoah o dei neri africani per lo schiavismo in America. I cani non hanno alcuna colpa e vengono confinati in un'isola fatta solamente di rifiuti e privazioni. Ed ecco che l'allegoria si estende, visto che entrano in gioco tanto la natura dell'animale (sia quella feroce della fame e dell'aggressività, sia quella mansueta del desiderio di un padrone) quanto la complessità del gruppo e della democrazia interna al branco.
E se gli umani rivoluzionari (gli studenti) possono sembrare macchiette, non bisogna dimenticare quanto L'isola dei cani sia intriso di cultura e cinema giapponese, con riferimenti al cinema di Kurosawa ben oltre il semplice omaggio (specie il Kurosawa degli anni Quaranta e Cinquanta), e altre suggestioni chiarissime (da Hokusai a Ozu). Una tradizione, quella nipponica, dove la colpa e l'ingiustizia chiamano direttamente in causa la dignità e l'onore personale, nel bene e nel male. Inevitabile commuoversi per scombinata famiglia di cani ammaccati e zozzi che ci viene presentata (a proposito, obbligatorio ascoltare la voce di Bryan Cranston nei panni del quadrupede protagonista), tuttavia è altrettanto riuscito il personaggio di Atari, una formidabile sintesi del cinema di Miyazaki (specialmente Si alza il vento, elegiaco addio del maestro) e del Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry.
L'isola dei cani è una di quelle opere che impongono l'oggettività della propria grandezza, almeno per cura compositiva e creatività tecnica, ma che si candidano anche a rimanere nella storia del cinema contemporaneo per come sanno far innamorare di sé man mano che i giorni passano e che il pensiero ritorna al film.