Il film di Iram Haq affronta con garbo (e trasporto) un tema mai così tragicamente attuale. Dal 3 maggio al cinema.
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Sana Cheema. Iram Haq. Nisha Hussain. Tre donne, tre ragazze con molte cose in comune: una famiglia emigrata dal Pakistan in Europa, la curiosità dell'adolescenza, la voglia di vivere e innamorarsi, la consapevolezza di rappresentare la modernità in un contesto familiare radicato nella tradizione. Due differenze fondamentali. Sana e Iram sono due ragazze "vere", Nisha è il personaggio di un film. Ma soprattutto: Iram è viva. Sana no.
Una storia simile era capitata a Iram Haq, oggi quarantenne, regista al terzo film, autrice di Cosa dirà la gente, in uscita il 3 maggio. Un film che racconta proprio la sua storia, quella di un'adolescente come tante a Oslo, innamorata del suo ragazzo, colta in flagrante dal padre apparentemente progressista. Rapita - in barba ai servizi sociali norvegesi - per mantenere intatta la sua virtù. Portata in Pakistan per una rieducazione forzata. Riuscita, fortunatamente, a salvarsi. Nel film, scritto dopo tanti anni per "trovare il giusto distacco", il suo nome è Nisha Hussein.
Pakistan, Marocco, Somalia e Iraq sono i paesi d'origine della maggioranza degli immigrati presenti in Norvegia. Nel 2010 la comunità musulmana nel paese contava 99.000 membri, costantemente in crescita, su una popolazione totale di cinque milioni di abitanti. Un 2% con cui i norvegesi non hanno instaurato una relazione particolarmente serena. Nonostante l'immigrazione pakistana risalga ai primi anni Sessanta (la prima moschea di Oslo fu costruita nel 1974: due anni prima della nascita di Iram Haq), le preoccupazioni causate dal movimento dei migranti ha fatto crescere il consenso del partito conservatore nel paese - così come accaduto anche in Finlandia, Svezia e Danimarca.
Una situazione già di per sé complessa, che per le donne musulmane di famiglia tradizionalista diventa ancora più complicata. Perché non sempre i genitori sono disposti a lasciare che le proprie figlie si "adeguino" ai valori del Nord Europa. Uno studio della ricercatrice americana Phyllis Chesler sui cosiddetti "delitti d'onore", commessi nel mondo tra il 1989 e il 2009, mostra che il 58% delle vittime sono state uccise per essersi opposte a una tradizione culturale o religiosa. Il 91% di loro si trovava in Nord America, il 71% in Europa. Solo il 43% nel mondo islamico.
Troppo indipendenti, non sufficientemente sottomesse, ribelli a un modo di vestire, di coprirsi, di portare i capelli o indossare il velo. Decise a sposarsi con chi vogliono o a non sposarsi affatto, determinate a studiare, ad andare in discoteca, a trasgredire, a lavorare, a scegliere il mestiere che vogliono praticare. È questo l'identikit delle donne in pericolo di vita in ogni parte del mondo, donne che trovano in altre donne nuovi modelli di comportamento e fonti di ispirazione. Tra le tante la marocchina-belga Karima, autrice di "Non sottomessa e non velata". L'attivista svedese Sara Mohammad, originaria del Kurdistan iracheno, presidente di un'associazione dedicata a due giovani donne uccise dai padri perché volevano integrarsi nel paese nordeuropeo. E ancora Jasvinder Sanghera, di origine indiana, sopravvissuta ad abusi e molestie e fondatrice in Inghilterra del network Karma Nirvana, che mette le donne in rete conto le barriere culturali e tradizionali. E certamente anche Iram Haq. Il cui film, in Norvegia, è già un piccolo caso, essendo diventato il maggior successo "indie" della stagione.
E non è un caso forse che Cosa dirà la gente esca al cinema proprio mentre in libreria arrivava "Shameless", scritto da tre autrici di famiglia non norvegese (Nancy Herz, Amina Bile, Sofia Nesrine Srour), sul peso del controllo sociale esercitato sulle donne musulmane. "Oggi ho capito che per essere davvero libera devo smettere di preoccuparmi di cosa pensa di me la gente - ha detto Haq - Per essere libere dobbiamo cominciare a credere in noi stesse e lottare per la vita che vogliamo condurre. Ne abbiamo il diritto".