Film come questo sono il risultato della trasformazione del cinema sospeso tra indipendenti e Hollywood da una parte, e delle prospettive seriali dall'altra. Al cinema.
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Quello di Tonya (guarda la video recensione) è un percorso già sperimentato molte volte. Il film di Craig Gillespie, quando è stato presentato ad alcuni festival, ha rappresentato una irruzione inattesa per come aveva preso in contropiede le aspettative del pubblico, e per la capacità di mettere in crisi gli standard del film sportivo e biografico. L'effetto sorpresa, insomma, è stato decisivo, insieme al passaparola che ha portato Tonya ai successi nei premi più importanti. Poi, come spesso accade, una volta che la storia della più controversa pattinatrice artistica di tutti i tempi ha cominciato a raggiungere i vari mercati ha dovuto affrontare un giudizio più severo, perché quando si parla troppo di un film e i suoi elementi innovativi vengono più volte spiegati e anticipati, la delusione è dietro l'angolo.
È stato detto da alcuni commentatori che il film sembra - o poteva diventare più proficuamente - una serie televisiva: è probabile che il parallelismo nasca dalla dimensione biografica e grottesca (stile American Crime Story), dalla rappresentazione iperbolica di un'umanità sciocca e provinciale (stile Fargo), e dall'approccio "mockumentary" o semi-documentario di certa serialità recentissima (da American Vandal ai cosiddetti true crime). Quindi la somiglianza è evidente, e confermata dal momento in cui Tonya Harding - angelo nero delle cronache sportive - osserva sul televisore le contemporanee vicende di OJ Simpson, a sua volta al centro di attuali ricostruzioni seriali.
Proviamo però a ribaltare la prospettiva. Perché il cinema non dovrebbe far sue e intensificare le forme stilistiche e narrative che provengono dal piccolo schermo (sempre che questa definizione abbia ancora un senso oggi)? Perché dovremmo chiedere uno sguardo "più cinematografico", meno frenetico e ibrido, al cinema di questi anni? È più facile pensare che ci sia un dialogo vivacissimo e rigenerante tra produzione e pubblico: gli spettatori hanno voglia di essere sorpresi, di osservare personaggi nuovi e sfaccettati, come del resto stanno affermando da anni nel premiare la serialità più qualitativa e complessa.
Il cinema, di suo, continua a offrire interessanti soluzioni formali, come nel caso delle vertiginose riprese su ghiaccio, dove il volto di Margot Robbie (vero clown o freak del mainstream americano) viene invisibilmente montato sul corpo di vere pattinatrici. E poco importa che alcune soluzioni stranianti (le finte interviste, la colonna sonora beffarda, i personaggi che interpellano il pubblico, la disinvoltura temporale del racconto) ricordino scelte già note che dalla Nouvelle Vague sono giunte fino al postmoderno degli anni Novanta: queste tecniche sono diventate patrimonio comune, e non c'è nessun motivo pretendere ogni volta che i film rinuncino al bagaglio pre-esistente per inventare non si sa quale novità compositiva.
Insomma, anche se Tonya non ha alcun bisogno di difensori (ha messo d'accordo pubblico e critica in maniera quasi unanime), vale la pena usare questo film per capire come oggi - in assenza di tendenze, generi preminenti, trend universali - ogni titolo basta a sé stesso e trova un suo dialogo con lo spettatore. Questa relazione sta avvenendo sempre più attraverso la scrittura e la forza contraddittoria dei personaggi, tanto nel cinema quanto nella serialità, ed è un dato di cui tenere conto per chi osserva la creatività contemporanea.