Due mesi dopo il successo di The Post, il regista torna con Ready Player One, dal 28 marzo al cinema.
Il tuo browser non supporta i video in HTML5.
Alcuni registi americani (David Lynch o Michael Mann) deviano poco dal loro presupposto iniziale, Steven Spielberg diversamente è un mix di personalità e convenzione. In quasi cinquant'anni di carriera è stato tutto: enfant prodige con Duel, "un primo film perfetto" lo definì François Truffaut; inventore del blockbuster con Lo squalo, un prodotto culturale inedito costruito sulla scienza esatta dell'intrattenimento affettivo, ovvero la conoscenza infallibile delle leggi del mercato e del cuore degli adolescenti; re del mondo e del meraviglioso negli anni Ottanta sulla scia di E.T. l'extraterrestre, un record storico da 792 milioni di dollari mantenuto per undici anni; simbolo biasimato del cinema commerciale e del merchandising a oltranza, i suoi film diventano veri e propri marchi declinati in prodotti derivati (I predatori dell'arca perduta, Jurassic Park...); autore unanimemente acclamato che gira oggi film più compassati.
Aspettavamo ogni volta e a ogni film il momento preciso in cui il ragazzo sarebbe diventato adulto ma non era mai quello giusto. Passaggio (artistico) puntualmente rimandato, Spielberg lo cerca prima con Il colore viola e poi con Schindler's List, inaugurando una nuova stagione oscillante tra divertissement popolare (Jurassic Park) e film di prestigio (Schindler's List). Stagione cinematografica che persevera nella fanciullezza e realizza soltanto il desiderio infantile di piacere (ai più grandi). L'intrattenitore incontra il favore della critica, scoprendo che la rispettabilità non è incompatibile coi suoi affari e con una filosofia degli affari di cui custodisce ancora il segreto. Cresciuto tra l'insolenza dei produttori folli (e cocainomani) degli anni Ottanta (Don Simpson) e la nuova generazione di Wall Street (i fratelli Weinstein), Spielberg appartiene di fatto a una categoria a parte, un Rockefeller col berretto che coltiva il suo passato da nerd e mette in scena il meraviglioso con maestria linguistica e drammaturgica.
La storia dell'impero spielberghiano è fatta di innovazioni audaci, di riciclaggi commerciabili, di colpi di genio e di trovate pubblicitarie che hanno stravolto le vecchie pratiche dell'industria americana hollywoodiana in crisi finanziaria e ideologica degli anni Sessanta e Settanta. Nondimeno il 'campione del box-office' non è riducibile alle parole dollaro o record, Spielberg è un riferimento essenziale per una nuova generazione di autori e di cinefili, un gigante del cinema che continua irriducibile a costruire universi spettacolari in cui (ri)troviamo commossi il lirismo del cinema classico. E in quel cinema (Lincoln, Il ponte delle spie, The Post), che segue i tentativi complessi e sorprendenti degli anni duemila (A.I. - Intelligenza artificiale, La guerra dei mondi, Minority Report), un certo 'spirito serioso' si distende sulle spire del meraviglioso del creatore di meraviglia. Maturi e di eccellente fattura gli ultimi film di Spielberg interrogano l'America e la Storia in maniera forte e intelligente ma qualcosa di indecifrabile sembra essersi placato nel suo cinema, attenuato. Alla foga e alle visioni infiammate del debutto degli anni zero, che registrano l'ultimo segno di uno stato adolescenziale, subentra l'eloquio lento e l'intelligenza strategica di gentlemen umanisti che si impegnano a trasformare in atto i grandi valori americani (libertà e giustizia). A settantadue anni il papa di E.T. scivola dal piano della visione a quello dell'ascolto e diventa adulto.
Da grande Spielberg si preoccupa (ancora e ancora) della coerenza del nostro mondo con la convinzione che un regista possa parteciparvi. A ispirare le nuove generazioni oggi non sono soltanto i film della maturità, sono altresì quelli dell'avventuroso e del perturbante. Quelli che hanno stabilito per sempre un'espressione ricorrente nel suo cinema e a cui i fan hanno dato il nome di "Spielberg face": un volto dallo sguardo sbigottito che la m.d.p. avvicina lentamente. Incontri ravvicinati del terzo tipo segna l'apparizione di questa scala espressiva, lo sguardo di François Truffaut, che interpreta il professor Lacombe, osserva a bocca socchiusa e sguardo inchiodato quello che vede, qualcosa di così sorprendente che non può ancora essere mostrato. Un procedimento ripreso qualche anno dopo filmando Elliot, un ragazzino con una torcia in mano, che scopre per la prima volta E.T.. Una maniera il cui significato evolve col tempo e col suo cinema: dall'espressione frastornata del capitano Miller (Salvate il soldato Ryan) sotto il fuoco del bombardamento nemico a quella appesa di Katharine Graham (The Post) al telefono e al rischio. Quello che non smette di prendersi Steven Spielberg, eroe ordinario capace di cose straordinarie proprio come i personaggi che ama raccontare con quella capacità ineguagliata di mettere al centro l'emozione profonda dello spettatore.
Due mesi dopo l'uscita di The Post, Spielberg torna in sala con Ready Player One, storia di un ragazzino alla ricerca di sé e di un easter egg nascosto nelle pieghe di una realtà virtuale. Una lunga allucinazione (140 minuti) che conferma la vitalità di questo uomo-cinema assoluto. Insomma il bambino 'superato' in lui non è ancora pronto a rinunciare ai suoi giocattoli. Basta grattare via quella patina di accademismo edificato con la complicità di Janusz Kaminski, il suo direttore della fotografia, per ritrovarlo e ritrovare il bisogno di un sentimento dell'azione.
Un ultimo e magnifico esempio è la corsa del giovane stagista inviato a spiare i movimenti del "New York Times" con un'istruzione perentoria ("non camminare!"). Il ragazzo corre a perdifiato e ruba destramente una lettera al fattorino per giustificare il suo ingresso nella redazione del giornale rivale. In quel movimento di idee, di corpi e di camera c'è qualcosa di fondamentalmente ludico. Spielberg mette in scena tutto il piacere di partecipare alla Storia, la gioia di lavorare dentro e per una comunità fondata su un'ideale (democratico) condiviso. Con la sua perfetta sintesi tra cinema personale e capacità di piacere.