Polanski racconta una vicenda che rifiuta consapevolmente ogni metafora del presente e ogni riflessione sul contemporaneo.
Al contrario di quanto suggerirebbero le fatiche dell'anagrafe, c'è un pugno di autori che dopo aver compiuto ottant'anni sceglie di sperimentare ancora più radicalmente di prima. È il caso di registi come Clint Eastwood (che ha trovato una bizzarra e rosselliniana leggerezza in Ore 15 17 - Attacco al treno (guarda la video recensione)), di Woody Allen (che con Café Society (guarda la video recensione) ha provato per la prima volta la cinepresa digitale modificando i suoi stili di ripresa), Jean-Luc Godard (che in Adieu au Langage - Addio al linguaggio ha esplorato avanguardisticamente il 3D) o Agnès Varda (che contamina il proprio cinema indefinibile con il molto più giovane JR per Visages/Villages). Anche Polanski getta a mare tutte le zavorre e riesce nell'incredibile impresa di girare un film totalmente polanskiano per quanto riguarda temi e iconografia - dal tema del plagio/possessione sino alla claustrofobia degli interni - ma di cedere territorialità su dove questa volta l'approccio poetico può portare. Se già in L'uomo nell'ombra il regista polacco si era sciolto con leggerezza dentro un meccanismo da thriller perfettamente oliato e politicamente incandescente, questa volta va ancora oltre in una vicenda che rifiuta consapevolmente ogni metafora del presente e ogni riflessione sul contemporaneo. Se ancora Carnage lavorava a suo modo intorno al post-11 settembre, e se Venere in pelliccia funzionava come drammatica e autobiografica, nonché spietata, riflessione sulla propria risibile mascolinità, Quello che non so di lei (guarda la video recensione) è un film interamente al femminile.
Ma, mentre si affacciano come al solito gli spettri di Hitchcock (si guardi la clamorosa scena in terrazza dove Delphine si accorge che la sua amica vive nel palazzo di fronte), ecco che un'altra ipotesi più suggestiva emerge. La sceneggiatura di Quello che non so di lei è scritta a quattro mani con Olivier Assayas, di cui si riconoscono evidenti riferimenti, per esempio a Sils Maria e a Personal Shopper. Se si aggiunge che si tratta di una storia di un'affermata scrittrice che fa entrare pian piano nella propria vita (artistica) una ghost writer ai limiti dello stalking, finendo col cedere elementi della propria personalità, ecco che si potrebbe pensare a un piano sulfureo di Polanski. Altro che "sempre lo stesso film, sempre lo stesso autore": il cineasta si fa letteralmente contaminare dall'opera di un altro - Assayas, appunto - fino a sfiorare il sospetto che la storia narrata rifranga il processo di creazione del film. Il tutto, peraltro, girato con una trasparenza, una facilità, una devozione al puro racconto che fa pensare agli ultimi film della carriera di Jean Renoir o Fritz Lang, in cui la critica riscontrava la massima complessità di sguardo nella massima evidenza e chiarezza della messa in scena. Quello che non so di lei è insomma un film di pura cinefilia, il cui "tratto da una storia vera" del titolo originale può essere letto in due modi: o come beffarda presa di distanza dal realismo cinematografico, o come indicazione veritiera di come hanno lavorato Assayas e Polanski.