Il film di Paul Thomas Anderson richiama alla mente lo stile del genio francese, e un titolo in particolare. Al cinema.
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SPOILER ALERT: la breve analisi a seguire partirà dal finale de Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson, dunque se non volete sapere come si conclude la vicenda (ed è un finale a sorpresa), smettete subito di leggere. Per chi ha già visto il film, invece, è possibile fare un paragone inaspettato fra due cineasti di fama internazionale. No, non stiamo parlando di Anderson e Hitchcock, benché Il filo nascosto sia evidentemente "hitchcockiano" nella struttura narrativa. Il regista di riferimento è François Truffaut, che PTA ha descritto come l'unico in grado di "assalirlo emotivamente" perché "rispetta le regole, ma ad un certo punto ci butta sopra qualcosa di punk rock". E il paragone è con un film di Truffaut in particolare: La mia droga si chiama Julie.
Ne La mia droga si chiama Julie infatti è Louis (Jean Paul Belmondo) ad essere così travolto dal sentimento per Julie (Catherine Deneuve) da accettare, come estrema prova d'amore, che lei gli somministri un topicida. Nel romanzo originale, "Vertigine senza fine" di William Irish, la morte dell'uomo era il finale. Nel film del terminalmente romantico Truffaut il finale suggerisce invece l'inizio di una nuova fase della storia d'amore fra Louis e Julie, quella in cui la donna si rende finalmente conto di potersi abbandonare a quell'uomo diverso da tutti quelli che l'hanno preceduto e al suo amore incondizionato, che come tale richiede una resa totale.
È la consapevolezza con cui Louis accetta ogni cosa da Julie, ammettendo il suo bisogno vitale di lei, a fare la differenza, a rovesciare le parti e creare un nuovo terreno di gioco. Quel finale, che vede i due brancolare insieme nella neve, aggrappandosi l'uno all'altro "per la vita", richiama nell'ambientazione quello di un altro film di Truffaut, Tirate sul pianista, che PTA ha sempre dichiarato essere il suo preferito del regista francese. Piccola nota a margine: William Irish altro non è che lo pseudonimo di Cornell Woolrich, scrittore che visse tutta la vita insieme alla madre, dalla quale riuscì a staccarsi solo nel breve periodo di un matrimonio mai consumato e annullato dopo tre mesi. Questo particolare, che dice molto sul tema della (s)fiducia che Woolrich nutriva nelle (altre) donne, trova un eco ne Il filo nascosto, dove alla radice dell'afasia di Woodcock nei confronti delle sue compagne occasionali c'è la fedeltà incrollabile ad una madre defunta e mai veramente allontanata dalla propria camera da letto.
Anche in questo caso il finale della storia avrebbe potuto essere la morte dell'uomo, incapace di adeguarsi alle esigenze della donna. Ma anche Paul Thomas Anderson è un irriducibile romantico, e dunque la fine si rivela solo l'inizio di una nuova relazione in cui l'uomo accetterà di abbandonarsi all'amore come assoluto, di mostrarsi "tenero, aperto, arrendevole". E se in entrambi i film è il maschio ad acconsentire a un avvelenamento, in entrambi a trionfare non è la femmina in quanto tale, ma l'amore che sposta i confini del noto e non fa prigionieri: a meno che non si acconsenta volontariamente alla reciproca "prigionia" per dare un significato nuovo alla parola "libertà".