BALON, UN'OPERA CONTRO LA PAURA E IL RAZZISMO

Il cinema per Pasquale Scimeca è sempre stata un'esperienza totalizzante, un concetto che trascende la semplice messa in scena.

Giancarlo Zappoli, venerdì 16 febbraio 2018 - Focus

Dinanzi a un film di Pasquale Scimeca non valgono le categorie che si è soliti applicare al cinema. Il cinema per lui è sempre stato un'esperienza totalizzante che è andata sempre al di là della pura e semplice messa in scena di una storia. È così fin dal primo film che lo fece conoscere al grande pubblico. Placido Rizzotto non era solo l'ennesimo film sulla mafia ma un'opera in cui si sentiva l'urgenza di raccontare un personaggio dimenticato e di ammonire che "non si nasce schiavi o padroni, lo si diventa". Da allora ogni suo lavoro ha mostrato e dimostrato un'urgenza che, citando Fabrizio De André, potremmo definire "in direzione ostinata e contraria".

Anche quando l'origine del soggetto era di matrice letteraria (l'amato Giovanni Verga) la tensione ideale rimaneva indelebile e immediatamente riconoscibile.
Giancarlo Zappoli

Così come connotativa delle sue scelte di regia è la commistione che instaura ogni volta tra attori professionisti e persone alla prima esperienza davanti alla macchina da presa. È ciò che accade in questa occasione in cui motore della storia sono le narrazioni ascoltate presso un centro di accoglienza dei migranti in Sicilia e la scelta di andare a girare in Sierra Leone in un villaggio i cui abitanti non sanno cosa siano il cinema o la televisione.

La macchina da presa ne va a cercare i primi piani, quando si tratta dei protagonisti che interpretano una storia che a loro non é accaduta ma che non manca di elementi vissuti direttamente. Come quando si assiste all'assalto del villaggio da parte di una banda ramata che semina la morte: la Sierra Leone non ha dimenticato la guerra civile che ne ha a lungo insanguinato le strade. Dal terrore si fugge per poi incontrarlo di nuovo in una gabbia libica in attesa di una liberazione o del degrado mentre il canto che era rituale di festa o di fede si trasforma in melodia di consolazione o di preludio al gesto estremo.

La scelta del punto di vista poi in questa occasione è determinante. Il cammino della speranza di tanti è narrato attraverso lo sguardo di Amin e della sorella Isoké di poco più grande. Non si tratta solo di una scelta narrativa, di per sé già più che valida, ma di un progetto che vuole ampliare gli orizzonti di qua e di là del Mediterraneo. Scimeca proporrà il film in scuole medie e superiori in Italia e metterà chi vuole farlo in contatto diretto con chi vive nel villaggio che ha costituito il set di partenza del film. Perché, come lui stesso afferma "Noi crediamo sia necessario fare qualcosa per contrastare il sentimento di paura e di smarrimento (che spesso sfocia in odio e razzismo) attraverso la conoscenza dei problemi, non in astratto".

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