TUTTI I SOLDI DEL MONDO, TUTTE LE DIMENSIONI DEL FARE FILM

Pur lungi dall'essere un grande film, l'ultimo lavoro di Ridley Scott è il film che proietteremmo nelle scuole per far capire che cosa è veramente il cinema. Ecco perché.

Roy Menarini, domenica 7 gennaio 2018 - Focus

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Mark Wahlberg (Mark Robert Michael Wahlberg) (53 anni) 5 giugno 1971, Dorchester (Massachusetts - USA) - Gemelli. Interpreta Fletcher Chase nel film di Ridley Scott Tutti i soldi del mondo.

La travagliata vicenda post-produttiva di Tutti i soldi del mondo, con lo scandalo legato a Kevin Spacey e la conseguente decisione di rigirare buona parte del film con un attore in sostituzione (Christopher Plummer), ha inevitabilmente modificato sia i contenuti del film sia la percezione dell'opera. Curiosamente, le parti più compatte del racconto sembrano essere proprio quelle del "re-shooting", anche grazie all'anziano attore che ha messo tutta la sua esperienza al servizio del personaggio pensato per Spacey, risultando credibile e perfettamente tagliato per la parte.

Detto questo, ciò che interessa del nuovo lavoro di Ridley Scott è che, forse senza volerlo, contiene in sé tutte le dimensioni del fare film, come se fosse un catalogo di valori e disvalori, pratiche migliori e peggiori, successi e incidenti di quella straordinaria industria creativa che si chiama cinema.
Roy Menarini

C'è la dimensione autoriale, anche se nemmeno il più cocciuto degli amanti della politica degli autori potrebbe trovare una coerenza all'ultima parte della carriera di Ridley Scott: basta elencare alcuni titoli (Robin Hood, The Counselor, Exodus, Sopravvissuto, Alien: Covenant) per comprendere come i progetti abbiano ben poco in comune. Eppure, il regista inglese non rinuncia a strizzare l'occhio ai cinefili, come accade già dalle primissime sequenze di Tutti i soldi del mondo ambientate a Roma, con ben tre citazioni in pochi secondi, da La dolce vita, Le notti di Cabiria, Mamma Roma.

In foto una scena del film.
In foto una scena del film.
In foto una scena del film.

C'è la dimensione attoriale, dominata dalla prova di Plummer, infestata dal fantasma di Spacey (sarebbe bello mettere le mani sulla copia con l'attore americano e osservare il confronto tra i due grandi attori), ma anche il vero e proprio mestiere della recitazione, per cui tanti attori italiani appaiono e scompaiono in pochi secondi dall'inquadratura (in particolare Francesca Inaudi, il redivivo Nicolas Vaporidis, Giulio Base, e molti altri volti di contorno).

C'è la dimensione della rappresentazione geografica e storica. Gran parte del film è ambientata in Italia negli anni Settanta, con inevitabili effetti-rimbalzo per noi spettatori indigeni, con elementi contraddittori nella lingua (specie nella versione doppiata) e una serie di clichè cui peraltro siamo ampiamente abituati - senza poi dimenticare che il lavoro sul nostro stesso stereotipo è parte integrante dell'esportazione del Made in Italy, basti pensare alle campagne pubblicitarie dei grandi marchi del cibo e della moda, come nel caso delle campagne "neorealiste" e folkloriche di Dolce & Gabbana.
Roy Menarini

C'è la dimensione tecnica e stilistica del film, che - pur sembrando un costrutto di tante differenti parti non del tutto amalgamate - ci rimanda per ciò stesso, e ancora una volta, al cinema nella sua natura più profonda. Quindi il montaggio, chiamato a tappare le falle di un film salvato in pochi giorni con rapidità e professionalità quasi incredibili; la straordinaria colonna sonora di Daniel Pemberton; la fotografia slavata e fin troppo vintage di Dariusz Wolski; la scenografia creativa di Arthur Max; insomma Tutti i soldi del mondo è uno strano film a se stante, fuori dai generi consolidati, realizzato con spirito internazionale e cosmopolita e sostenuto da competenze chiamate ad amalgamare un'opera per sua natura centrifuga, resa ancora più precaria dall'affare-Spacey.

Eppure Tutti i soldi del mondo, pur lungi dall'essere un grande film, è il film che proietteremmo nelle scuole per far capire che cosa è veramente il cinema.

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