Il film di Paolo Genovese è un'opera diversa e coraggiosa. Avercene di film così in Italia.
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Il Kammerspiel è una forma di teatro ideata dal tedesco Max Reinhardt, grande inventore, all'inizio del secolo scorso. Trattasi di un solo ambiente, chiuso, in cui agiscono pochi personaggi. The Place presenta una variazione, non decisiva: i personaggi entrano ed escono dall'ambiente. Ci sono "kammerspiel" recenti, di qualità, come Perfetti sconosciuti (guarda la video recensione), dello stesso Genovese, e soprattutto Carnage, rigoroso in assoluto nel concetto "teatro da camera", di Polanski. Se ti giochi tutto sulla parola, il testo deve essere all'altezza. E dico subito che nel film di Genovese lo è. Non si può non citare la derivazione, che è la serie televisiva americana The Booth at the End: lo schema è esattamente quello. Altra premessa: The Place non è un film "italiano", la vicenda potrebbe vivere in tutte le città. Ottimo.
Una suora ha perso la fede, ebbene per ritrovarla dovrà avere un bambino; un cieco, per riavere la vista dovrà violentare una donna; un padre, per far guarire suo figlio malato dovrà uccidere una bambina. E così via. Sono nove le vicende che finiranno per intrecciarsi. Ma chi è il "tale", che apre e chiude continuamente un'agenda dove legge e scrive? È il diavolo, un mistico inquietante, un imbroglione con carisma? O è dio? Non intendo entrare nelle letture filosofiche, mistiche o simboliche. O letterarie (a partire dal Faust), non c'è spazio. Starò ad alcune sintesi. Una mi sembra decisiva: quando il soggetto decide di non stare al gioco del "tale", gli si oppone scombinando il suo disegno e la sua (onni)potenza può essere un segnale a sua volta potente: gli umani sono migliori di dio. Un'idea come un'altra. Altra considerazione: fra i modelli non ci sono l'omosessuale e lo straniero di colore: scelta ardita in questa epoca, gli autori devono aver lungamente dibattuto.
Attori-recitazione-ruolo Anche qui devo fare una selezione, dovrò omettere, ma tutti gli attori sono all'altezza. Valerio Mastandrea è il "tale". Non possiede la grazia aggiunta di un Servillo o di un Germano, ma è quasi perfetto, ci mancherebbe, non gli manca l'esercizio essendo presente in quasi tutti i film italiani. Alba Rohrwacher è... Alba Rohrwacher, che faccia la suora, come qui, o la figlia, la sorella o tutti i ruoli, è sempre lei. Certo più che corretta. Marco Giallini fa il poliziotto tormentato, si preoccupa di modulare un'espressione, di occhi, di rughe, per ogni parola. Eccede. E poi, almeno io, capisco una parola ogni tanto di quelle che dice.
Mantiene il registro teatrale anzi "Piccolo-teatrale", il più alto, che non aderirebbe a quest'opera, ma non è lei che deve adattarsi al kammerspiel, è il kammerspiel che deve adattarsi alla Lazzarini. Moretti, in Mia madre, l'aveva tenuta su un registro puramente da cinema e lei si era adattata. Qui, insegna. Sabrina Ferilli, meno romana del solito, funziona: c'è del mistero nel suo ruolo, sarebbe una semplice e infelice cameriera, ma poi si rivela quella che tiene testa al "tale", e prevale su di lui. Silvio Muccino, febbrile e angosciato non è più il ragazzo "giovane Holden" ma un attore completo. Alessandro Borghi fa il cieco. Per tecnica e appeal è il migliore, la mia personale coppa Volpi l'assegno a lui. L'obiezione potrebbe essere: è favorito dal ruolo di menomato, come quelli del piede sinistro o di rain man che portarono un Oscar. Ma Borghi sorpassa anche questo vantaggio. Faccio i nomi degli altri: Vittoria Puccini, Rocco Papaleo, Silvia D'Amico, Vinicio Marchioni. Ribadisco, tutti all'altezza.
"Mio personale". Ho trovato, nei contenuti e nelle parti, momenti che mi legano a The Place: per cominciare la Lazzarini, che è una dei protagonisti del mio film sul Piccolo Teatro, lei che lo rappresenta, storicamente, come nessun contemporaneo. E non è poco. Le vicende del bambino che guarisce (quasi) miracolosamente e quella della bomba che non viene fatta esplodere, appartengono a due miei romanzi. Il legame mi porta dunque a raccontare il film con un pregiudizio buono. Ma questo nulla toglie a quanto affermo: a Milano diciamo "aveghen" avercene di film italiani così, diversi e coraggiosi, che si sostengono sulla scrittura, vera, e non accade quasi mai nel cinema italiano. Il nome da fare è anche quello di Isabella Aguilar, scrittrice.