Metz ha deciso saggiamente di agire in totale controtendenza rispetto al racconto sportivo unitario che la diretta - con le sue grammatiche e i suoi codici - tende a costruire. Al cinema.
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Ci sono state almeno tre grandi rivalità cui ha dato vita John McEnroe, forse - in termini di talento puro - il tennista più visionario della storia della racchetta: quella con Borg, quella con Connors, e quella con Lendl. Quest'ultima si nutriva degli sprazzi finali della Guerra Fredda, con McEnroe l'americano libero come il jazz e Lendl il cecoslovacco robotico come Ivan Drago. Tra lui e Connors era invece un derby tra sbruffoni, con litigi epici a bordo rete. E infine Borg, con cui la rivalità sembrava nata apposta per dare vita a situazioni cinematografiche - e non è un caso che ora stiamo commentando un film che reca nel titolo il nome dei due straordinari giocatori.
Del resto, la produzione è svedese di partenza, e dunque non si poteva pretendere un racconto orientato sul protagonista americano. La cosa più intrigante di Borg, d'altra parte, era proprio il fuoco che covava sotto la cenere. Anche lui - anzi, soprattutto lui - era quello che urlava in campo e spaccava le racchette, ma solo nella fase giovanile della carriera. Successivamente, grazie a una disciplina mentale ferrea, Borg riuscì a spazzare sotto il tappeto della razionalità i suoi eccessi, confinati al fuori-campo (in tutti i sensi). McEnroe, invece, riusciva a trarre forza ed energia dalle proprie stesse scenate. Ben lungi dal deconcentrarsi, poteva lanciare insulti osceni alla quasi totalità dei giudici e dei guardalinee senza perdere lucidità nel match, anzi terremotando le quiete certezze degli avversari.
Ecco perché i due tennisti erano sembrati fin da subito, negli anni Ottanta, personaggi leggendari, e il giornalismo sportivo (in taluni casi una piccola forma di letteratura) ne ha protratto il mito. Peccato che i realizzatori non abbiano esteso la sfida - visto il titolo - al match del 1981, meno spettacolare di quello del 1980 ma altrettanto importante per la rivalità. In ogni caso, il problema principale è, qui come in La battaglia dei sessi, la messinscena del match. Nel caso del film con Emma Stone, si trattava di una esibizione, con forti implicazioni ideologiche e culturali, ma di gran lunga meno importante da un punto di vista tecnico. Ecco perché parte dello scontro è rappresentata mediante inquadrature televisive, simili a quelle dell'epoca - con grande bravura delle controfigure, che hanno ricostruito interi scambi nella loro verità storica.
Il campo diventa così un set da sezionare, anche a costo di mancare l'obiettivo primario, ovvero raccontare la fluidità incredibile del gioco, spiegare il perché della forza di Borg e delle traiettorie fantasiose di McEnroe. Sono aspetti che si dispiegano lentamente nel corso delle tre, quattro o persino cinque ore dei match più importanti, che vivono della durata e della sfida psicologica e che ovviamente non sono replicabili nella mezzoretta conclusiva di un lungometraggio. Quindi, il ricorso a inquadrature zenitali, montaggi sincopati, dettagli e particolari, metonimie (suono del colpo al posto dell'immagine), obiettivi anti-naturalistici e sottrazione di punti di riferimento è quasi obbligato: ogni film sullo sport è un film sul linguaggio delle immagini.