Prima protagonista transessuale del cinema sudamericano, Daniela Vega ha saputo costruire una figura di performer che amplia il raggio d'azione a una vera e propria poetica. Al cinema.
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Sappiamo troppo poco del cinema cileno per poter dire che, grazie ai film di Pablo Larrain e Sebastian Lelio, ci troviamo di fronte a una vera e propria nuova onda cinematografica. Certo, quel che già si può affermare, è che i due registi (spesso legati, come in questo caso dove l'autore più celebrato funge da produttore per l'amico) sembrano avere idee molto chiare. Almeno due sono gli aspetti da mettere in luce, che rifulgono anche in Una donna fantastica. Il primo è che si tratta di autori che cercano di trovare soluzioni cinematografiche ai temi messi in scena. Il secondo è che cercano un dialogo con il pubblico, lavorando sulle forme di identificazione narrativa e sull'esemplarità del racconto. In questo caso, per esempio, la questione fondamentale dell'identità della protagonista Marina - la "chimera", come viene sprezzantemente definita dal personaggio della moglie - si estende anche allo spettatore che non conosce Daniela Vega.
Lelio, al tempo stesso esaltando la sua identità alternativa e nascondendo la verità all'occhio dello spettatore, compie per tutto il film un doppio movimento di svelamento e copertura, quasi seguendo le teorie dello striptease secondo Roland Barthes.
Più Lelio pone al centro della scena Marina, più i personaggi (quasi tutti) che le stanno intorno non sanno come trattare con lei e finiscono con l'espellerla, fisicamente, dal consesso umano. Persino chi la chiama istericamente "frocio" sbaglia, e non riesce a incasellarla, sfuggendo lei a ogni stereotipo persino per i razzisti e gli omofobi. Al tempo stesso, anche allo spettatore è negata la raffigurazione completa del suo corpo, o meglio degli organi genitali, che rimangono un piccolo mistero persino nel momento in cui Marina è costretta a un esame clinico. Piccola scelta di morale dello sguardo, che parrà forse fin troppo semplice ma che in verità distingue Una donna fantastica dal genere del cinema d'essai politicamente corretto.
Testardamente convinta che la morte dell'uomo sia legato a una reazione di Marina di fronte ad abusi (un teorema favorevole alla vittima, ma anch'esso schematico), si irrita di fronte al suo silenzio e le dice: "So che cosa hai passato, io le ho viste tutte", schiacciando ancora di più Marina nel suo ruolo di freak dal destino inevitabile e subalterno.
Alla fine, tornando ai registi cileni che abbiamo potuto apprezzare in questi anni, quello che appare più interessante è la loro capacità di rendere universali elementi di indagine sociale su scala nazionale. Una galleria di ipocrisie, ingiustizie, emarginazioni, rapporti faticosi con la Storia, relazioni malate ed egoismi famigliari che non dovrebbero in alcun modo essere credute lontane da noi. La necessità di trovare strumenti formali a temi delicati, senza accontentarsi del messaggio (sia pure indiscutibile), è la vera lezione di cinema da trarre in Una donna fantastica.