Il film di Alfredson è costretto a ricorrere ai sotterfugi pur di salvare quello che viene visto come il "core business" del genere.
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Il cast, la trama tratta da un libro di Jo Nesbø, la produzione di Martin Scorsese: tutti elementi che contribuiscono ad aumentare la delusione per il contrasto tra i dati di partenza ed il risultato de L'uomo di neve di Tomas Alfredson, un film nel quale il dipanarsi della vicenda tra fiordi e strade sembra solo un metodo come un altro per riempire due ore di qualcosa che per metà potrebbe presentarsi come un poliziesco ma per il resto sembra un gradevole video di promozione turistica della Norvegia e delle sue bellezze naturali.
Non si può ancora sapere con certezza a che livello della classifica dei jumpscare il sito americano "Where's the jump" posizionerà il lungometraggio, anche se pare impossibile intaccare il primo posto sul podio di The Haunting in Connecticut 2: Ghosts of Georgia (2013), che in 101 minuti riusciva ad inserire ben 32 jumpscare (di cui 6 maggiori e 23 minori si precisa). Questa tecnica è d'altronde una delle fondamentali per spaventare lo spettatore: apparsa per la prima volta nel 1942 con Il bacio della pantera di Jacques Tourneur è stata negli anni seguenti ripresa da altri registi quali Roman Polanski (ad esempio in Repulsion) e Terence Young (Gli occhi della notte). La crescita esponenziale del suo utilizzo si è avuta però a partire dagli anni '80, con la nascita anche delle categorie di pericolo allo specchio, falsa minaccia, tocco sulle spalle, etc. Da allora si rimane, considerando i film propriamente horror, sulla media dei 9 a pellicola.
Come qualsiasi altro espediente, l'utilizzo di questa tecnica non andrebbe ovviamente considerato come un problema in sé. Tuttavia il fatto che un lungometraggio riesca a ottenere tensione solo nei secondi immediatamente antecedenti il jumpscare è sintomo di una trama debole, costretta a ricorrere ai sotterfugi pur di salvare quello che viene visto come il "core business" del genere.
Tomas Alfredson, prima di girare L'uomo di neve avrebbe fatto bene a ripassare la lezione di Hitchcock. Il maestro del brivido, infatti, ricordava come la grande differenza tra suspence e shock o sorpresa risiedesse nella diversa regolazione del flusso d'informazioni di un racconto. Hitchcock usa questo "trucco" assai sapientemente nei suoi film. Per ottenere la suspense si forniscono allo spettatore un certo numero di informazioni, e si lascia il resto alla loro immaginazione. La suspense è difficile da generare ma instaura una tensione durevole mentre lo shock impressiona per un attimo, scollato spesso dalla trama generale. In aggiunta, a maggior ragione in un film thriller come L'uomo di neve, la continua ricerca della sorpresa tramite le stesse tecniche non può che portare lo spettatore ad abituarsi, rendendole in larga misura inefficaci. Sono troppe davvero le volte in cui il povero Fassbender rischia di morire. Nel film di Alfredson non c'è spazio per l'immaginazione dello spettatore, i vuoti sono sempre colmati e la costruzione della tensione è affidata unicamente a improvvisi aumenti del volume della musica, gatti che saltano sulle finestre o mani sulle spalle.