Villeneuve osserva ed espande l'universo narrativo e iconografico di partenza con un rispetto a dir poco reverente, cercando al tempo stesso di gemmare un'opera autonoma. Al cinema.
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Prima di affrontare Blade Runner 2049 bisogna chiedersi perché Blade Runner è diventato un cult movie. All'uscita, nel 1982, il film non ebbe grande successo in America e venne preso molto più sul serio in Europa, da dove partì un passaparola tanto positivo da riservare a Ridley Scott una seconda e terza vita per la sua opera. Tra le motivazioni dell'interesse duraturo: la solidità dell'immaginario fantascientifico, molto coerente e ispirato al meglio di architettura, design, moda, e trend futuristici dell'epoca; l'idea straordinaria di immettere i germi del noir dentro un congegno di anticipazione narrativa; la forza simbolica della storia, con i replicanti (non robot, non alieni, non androidi, non cyborg) così simili a noi e così spaventati dalla morte, come noi; e infine un cast a dir poco perfetto, in tutti i ruoli principali e secondari.
E il progetto è stato pensato per mantenere lo stile e l'aspetto di allora, senza dimenticare le innovazioni di questi anni, visto che il film ha influenzato non solo una pletora di opere science fiction ma anche una intera letteratura (la commistione, in Blade Runner, di hard boiled e tecnofuturismo è alla base del movimento cyberpunk).
Blade Runner 2049 osserva ed espande l'universo narrativo e iconografico di partenza con un rispetto a dir poco reverente, cercando al tempo stesso di gemmare un'opera autonoma. I motivi per considerare questo sequel straordinariamente riuscito non risiedono solamente nel tono dark e quasi "tarkovskiano" scelto da Villeneuve, evitando qualsiasi sospetto di trasformazione in estetica da blockbuster del gotico postmoderno di Scott. C'è molto di più. Lo stile rispetta l'approccio formale caro a Villenueve: lavoro certosino sugli ambienti (illuminati ad arte dal maestro della fotografia Roger Deakins), predilezione per luci metalliche e monocromatiche piuttosto che pittoricamente romantiche; esplorazione lenta e implacabile del mondo di riferimento - basta ricordare il confine America/Messico di Sicario per avere un corrispettivo realista di questo proceso estetico.
La storia, che invece va attribuita in pieno al talento ritrovato di Hampton Fancher (cui dovremmo forse attribuire molti più meriti di quanto siamo soliti fare per il primo Blade Runner), è il secondo miracolo del film. Una vicenda pienamente intrecciata alla prima, che - pur rispettando il meccanismo dell'indagine hard boiled - smonta via via l'impianto poliziesco per giocare con sagacia sul tema dell'identità, con molte sorprese in mezzo. Non si svela troppo nel ricordare che Blade Runner 2049 basa il racconto fin dall'inizio su un detective replicante, che dà la caccia ad altri replicanti, e vive con un'intelligenza artificiale. Proprio l'adeguamento dell'universo di Scott - ancora pre-digitale - ai temi del virtuale è gestito con enorme delicatezza, in modo da confermare gli aspetti solidi e hardware del capostipite senza fingere che non esistano aggiornamenti informatici. Ricordiamoci infatti che Blade Runner 2049 non è il futuro secondo un verosimile sviluppo nel nostro mondo, bensì una coerente metamorfosi dell'universo del 2019 nella timeline e nelle caratteristiche della Los Angeles di Blade Runner.
Ciò che invece poteva sembrare meno prevedibile, era riuscire a offrire una dimensione romanzesca a nuovi personaggi, includendo i vecchi protagonisti. Il melodramma fantascientifico che lega Deckard al nuovo Agente K è perfettamente riuscito, in particolare per K, androide malinconico, all'inseguimento di se stesso, con toccanti squarci di vertigine esistenziale. Come se si fosse ribaltato il punto di vista, e finalmente toccase a un Roy Batty meno estremo prendere il centro della scena e mostrarci il futuro con i suoi occhi.