Fare un film da un capolavoro letterario non è mai semplice. Stéphane Brizé sceglie il metodo delle sintesi, dei flash. Al cinema.
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Una vita, diretto da Stéphane Brizé affronta il romanzo firmato da Guy de Maupassant. Una corrente forte, di cui fa parte Tolstoj, lo considera fra i titoli francesi di vertice dell'Ottocento, come "I miserabili" di Hugo e "Madame Bovary" di Flaubert. Fare un film da un capolavoro letterario non è mai semplice. Ci sono molte scelte da fare, nessuna sicura. Brizé sceglie il metodo delle sintesi, dei flash: si concentra sui momenti fondamentali della vita di Jeanne, dolorosa e sfortunata. Il film offre un assist sintomatico per una lettura del rapporto fra il libro e il film, che è di amore&odio.
Il rapporto fra cinema e letteratura è sempre stato stretto e tormentato. Stretto perché non c'è romanzo, salvo rarissime eccezioni, che non abbia avuto la sua brava versione cinematografica, tormentato perché le due discipline hanno regole molto diverse. Il cinema ha toccato, tutti gli autori, tutti i giganti. Da Omero a Shakespeare alla Christie, da Goethe a Grass, da Flaubert a Bernanos, da Manzoni a Tomasi di Lampedusa, da Fitzgerald a King, da Tolstoj a Kipling, a Solgenicyn a Kafka a Joyce, a Joseph Roth a Garcia Marquez.
Salvo trascurabili anomalie. Qualche esempio nel mare infinito: una contaminatio, filologicamente disastrosa, spettacolarmente efficace, è Troy. Sì, l'Iliade. Impossibile stilare una lista degli errori, però si possono rilevare alcuni falsi sostanziali e "impossibili", diciamo così. Per esempio la morte di Menelao, che poi, secondo Omero, sarebbe riapparso nel sequel Odissea. Ma c'è di peggio, anche Agamennone muore a Troia. Ed ecco vanificata la trilogia dell'Orestea di Eschilo. Un altro gigante devastato è Shakespeare. Troppo grande è la tentazione. Il massimo autore inglese scriveva per il cinema quattro secoli fa, tutto incredibilmente perfetto. I film ci hanno proposto Amleto in costumi da corte viennese, Riccardo III fra i nazisti, Romeo e Giulietta a Los Angeles e Titus nel palazzo dell'Eur. Chissà se il bardo avrebbe gradito.
Un altro eroe della contaminazione è Hemingway, che non mise mai il piede sul set di un film tratto da un suo libro. Lo scrittore era perfetto per essere maltrattato dal cinema, la sua sindrome si chiamava "lieto fine". Il romanzo "Avere e non avere" stabilisce una sorta di primato della contaminazione. Hollywood ne produsse tre versioni, Acque del sud, Agguato nei Caraibi e Golfo del Messico. Nei primi due assistiamo all'eroe che se ne va con l'innamorata mano nella mano. Solo l'ultima rispettò la storia disperata di Harry Morgan destinato, dall'inizio, a morire. E morirà. L'autore era invece riuscito a imporsi con "Per chi suona la campana". Robert Jordan che combatte in Spagna contro i Franchisti rappresentava gli intellettuali del mondo che si sacrificano, morendo, per la causa della libertà. "Morire" era indispensabile e naturale. Quando Hemingway seppe che la produzione pensava di salvare l'eroe con un bel happy end disse che avrebbe preso uno dei suoi fucili e sarebbe sceso alla Paramount. Sapevano che non scherzava e il testo fu rispettato. Scott Fitzgerald morì a causa di Hollywood. Non era il suo posto né la sua attitudine. Finì per distruggersi con liquori ed altro. Ebbe sette film tratti dai suoi libri fra cui quattro versioni de "Il Grande Gatsby". Pur pagando certi prezzi a certe invenzioni mélo necessarie, Gatsby, come deve essere, muore in tutte le versioni. Ci sono anche riduzioni appropriate di libri, omologhe e di qualità (quasi) equivalenti. Se si dice "Furore" ecco che i nomi degli autori possono ricorrere "alla pari", Steinbeck scrittore e Ford regista. Anche Visconti ha rispettato, sforzandosi, l'identità di Tomasi di Lampedusa. "Il Gattopardo" appartiene a entrambi.
Quelle immagini, quegli effetti speciali rilanciano l'episodio e il racconto come le parole e la carta non potrebbero mai fare. Il fantasy possiede un'essenza e un rigore (o forse non-rigore) diversi da quelli della scrittura. Ciò che viene apportato come "invenzione di immagine" se c'è la qualità -e negli esempi citati c'è- viene assunto con naturalezza.
Quando mi si chiede di indicare un titolo perfetto di collaborazione libro-film dell'era abbastanza recente il titolo è L'età dell'innocenza, romanzo di Edith Wharton. Scorsese riesce nella chimica di mediazione (quasi) perfetta fra la pagine e la pellicola.
Mi sono consentito una selezione fulminate, arbitraria e dolorosa. Ma non c'è dubbio che i modelli evocati abbiano contribuito a formare l'educazione sentimentale e intellettuale di tutti, noi compresi.
Tornando a Una vita: Normandia 1819, Jeanne nasce ricchissima, la famiglia possiede fattorie, lei vive in un castello. Sposa un nobile che si rivela subito un profittatore violento e senza morale, che seduce la serva, e nasce un bambino, e poi l'amica della moglie. Viene ucciso dal marito tradito dell'amica. Nasce un figlio problematico che negli anni peggiora. Sposa una prostituta, fugge a Londra, sperpera fortune. La madre, da lontano gli manda soldi. Le proprietà vengono vendute, Jeanne è ridotta a vivere in miseria sostenta dall'antica serva. Ma, come dice Maupassant, "la vita non è mai tutta buona né tutta cattiva". L'ultima immagine del film vede Jeanne tenere in braccio la neonata nipotina. Dunque, questa volta un (quasi) happy end legittimo. Brizé, come detto, sceglie i momenti decisivi, lasciando molto all'immaginazione. Macchina a mano, primissimi piani a decifrare i sentimenti. Squisitamente francese. Quando un grande romanzo diventa un film, è sempre una bella notizia.