Patty Jenkins modella la sua Diana attraverso una origin story abbastanza fedele al fumetto originale. Al cinema.
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Alla notizia che sarebbe stata Patty Jenkins a dirigere il costoso blockbuster della Warner, ispirato ai fumetti della DC Comics, gli appassionati si sono distinti in due categorie opposte: quelli che si sono fregati le mani immaginando una lettura particolarmente femminista della super-eroina mitologica e quelli che temevano l'incapacità di una regista "indie" nel governare l'imponente macchina dei film da franchise. Il risultato sembra dare maggior ragione ai secondi, non senza concedere l'onore delle armi all'autrice (alla quale, per tutta franchezza, sembra sovrapporsi l'estetica del produttore Zack Snyder, il vero "showrunner" che presiede all'universo DC).
Il problema è che la sua eroina nata dall'argilla - ma in verità figlia di Zeus e di un'amazzone - e cresciuta in un gineceo di donne combattenti, è sì figura femminile fiera e condottiera (come impone il girl power del cinema spettacolare anni Duemila) ma senza riti di passaggio significativi.
Nella prima parte del film, piuttosto schematico nei suoi tre atti, è ragazzina desiderosa di cimentarsi con le più grandi guerriere del suo popolo, tra cui una spaesata Robin Wright (lontanissima dalla controversa femminilità della first lady di House of Cards). La bambina piccola e rabbiosa ricorda da vicino Arya Stark di Il trono di spade, che pare essere un orizzonte non del tutto sconosciuto anche al modellarsi di Diana, che passa da ingenua a consapevole salvatrice del mondo. In questo caso il riferimento è Daenerys, che però fin dai titoli che recita ("Figlia della tempesta", "Madre dei draghi", ecc.) suscita ben altra empatia. Inoltre, passata attraverso la schiavitù - che le amazzoni progenitrici di Wonder Woman rigettano, sia per censo sia per sesso - Daenerys si è forgiata nella battaglia e ha conquistato sul campo la sua credibilità semi-divina.
Il training di Diana, invece, viene non a caso risolto con ampie ellissi, che si concludono con la scoperta, da parte dell'eroina ormai cresciuta, delle sue illimitate potenzialità. La curiosa assenza di epica, forse barattata per la tragedia (vera) delle origini del nazismo nella Prima Guerra mondiale, stride con la premessa mitologica e magniloquente, snyderiana, della guerra contro Ares e della mistica bellica cara al produttore e all'amico Frank Miller (lontano ma aleggiante).
Forse l'idea di Patty Jenkins era quella di tenere insieme mito e camp, attraverso una sorta di kitsch consapevole che salvasse baracca e burattini, lasciando spazio di fruizione ed entrata anche agli spettatori orientali che ormai costituiscono il principale bacino di utenza del blockbuster globale. Tuttavia, l'equilibrio è particolarmente instabile, come dimostrano le insistite quanto inutili caratterizzazioni dei personaggi secondari. Inoltre, proprio quando Diana/Wonder Woman sembra rendersi conto che la figura unica di Ares non può essere la responsabile dei comportamenti dell'intera umanità (piena di luci e ombre, amore e crudeltà), ecco che il divino torna fuori, con una parte finale inutilmente distruttiva e caotica.
A pensarci bene, è ancora una volta il confronto con Il trono di spade (il fantasy che riesce perfettamente a dire della nostra contraddittoria esistenza e della nostra organizzazione in classi e nazioni, a dispetto di draghi e morti viventi) a dimostrare i limiti dell'operazione Wonder Woman. Attendiamo in ogni caso il lento comporsi della Justice League per una disamina più accurata della faticosa avventura DC Comics al cinema.