Il terzo capitolo della trilogia insiste sul Messico e sul tema della frontiera, ma è stato pensato molto prima dell'elezione di Trump e con obiettivi e target ben diversi.
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Ci sono film che probabilmente verranno classificati, in futuro, come rappresentativi di un certo periodo storico. Le letture culturali delle opere audiovisive tendono sempre a trovare tracce sociali e politiche dentro testi popolari. Logan potrà dunque essere annoverato come primo film dell'epoca Trump, vista l'insistenza sul tema della frontiera, e la centralità narrativa del Messico, sfruttato dall'avidità criminale statunitense e a un certo punto persino paradossale luogo di fuga per i protagonisti.
Si tratta dunque di "aria del tempo", di film che diventano politici senza immaginarlo. E infatti, il grande tema della frontiera, giocato da James Mangold con grande consapevolezza, è uno di quegli archetipi della cultura americana duro a morire, indipendente dagli esiti elettorali, e presenta anche altrove, tanto quanto il modello del western (si veda altresì la declinazione fantascientifica della questione in Westworld).
Anche Logan è fantascientifico, con la sua ambientazione nel 2029, e alcune interessanti rappresentazioni di ciò che ci aspetta, prima fra tutte l'angosciante descrizione dei TIR del futuro, macchine senza conducente e senza abitacolo, lanciate a folle velocità sulle autostrade statunitensi. Ma il cuore pulsante del film è invece il passato, l'antica gloria dei mutanti (ormai vecchi e sconfitti), e un senso di tramonto dell'eroe che permea tutta la pellicola.
La citazione, forse un po' didascalica, di Il cavaliere della valle solitaria, fa tornare i conti. Il film di George Stevens, uscito nel 1953, non solo puntava sulla mitizzazione del cavaliere medievale in vesti di cowboy senza patria, ma apriva la strada a un periodo di western più crepuscolari e nostalgici, di cui fu campione indiscusso un regista come Anthony Mann. E dunque, se l'eroe di quel film, di nome Shane, viene identificato in Logan dalla figlioletta artigliata di Wolverine, è in fondo a quel sotto-genere che Mangold guarda per portare un po' di sano realismo e di ruvidezza anti-classica allo stile del racconto.
Assistere ai titoli di coda, decisamente più brevi del solito, fa capire che si tratta - anche produttivamente - di un'operazione meno legata agli effetti speciali e alla CGI rispetto alla saga principale degli X-Men, e che Logan in particolare rappresenta una nicchia malinconica e feroce di questo universo.
E ci si rende conto che lo strappo epocale procurato da Deadpool, pur con il suo atteggiamento smitizzante (tutto il contrario di Logan), è alla base di una riconfigurazione adulta di un pezzetto di questo universo. Gli spettatori più giovani possono stare fermi un giro, visto che ci sono milioni di spettatori trenta-quaranta-cinquantenni, cresciuti con la Marvel (su carta e su grande schermo) pronti a salutare con gioia atmosfere più tenebrose, sangue più copioso, temi più controversi.