Sydney Sibilia persegue il modello di una forte industrializzazione del prodotto italiano, principalmente attraverso la dimensione della serialità.
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Qualcuno direbbe ancora una frase come: "L'America ci ha colonizzato l'inconscio", dialogo scritto da Wim Wenders per Nel corso del tempo? Era il 1975, e - in clima di forti contrapposizioni europee tra capitalismo e comunismo, e nel pieno delle contestazioni sociali - l'americanizzazione della cultura e del cinema era vista come un ostacolo cui reagire attraverso il cinema d'autore.
Il western all'italiana ne fu l'esempio più popolare e fulgido, ma non il solo. La via italiana all' "americanata", insomma, si è sempre tinta di ironia, parodia, epica stracciona, e piacere del racconto ispirato alla commedia dell'arte. Ecco perché l'operazione Smetto quando voglio è solamente l'ultima propaggine di un vero e proprio movimento culturale di appropriazione nazionale, nato negli anni Sessanta, su cui molto si è detto ma molto si è anche equivocato, talvolta confondendo imitazione e reinvenzione. A parte il fatto che anche le imitazioni hanno la loro piena dignità artistica (ma ci vorrebbero due tomi per spiegare teoricamente i concetti di falso, calco, ripresa e così via), ovviamente ogni volta che ci si trova di fronte a uno sfrontato "furto" narrativo capace di dare vita a qualcosa di imprevisto e originale, le cose si fanno più entusiasmanti.
Se già il primo capitolo, non vergognandosi di imitare lo spunto iniziale di Breaking Bad, portava poi la banda dei ricercatori in territori a metà tra la commedia all'italiana, le webseries e Topolinia, la successiva idea produttiva di Sydney Sibilia e Matteo Rovere (non a caso specialista di reinvenzioni di modelli statunitensi, come dimostrato da Veloce come il vento) sembra perseguire con ancor maggior determinazione questo modello: una forte industrializzazione del prodotto italiano, principalmente attraverso la dimensione della serialità. Dunque Smetto quando voglio - Masterclass sarà seguito da Smetto quando voglio - Ad Honorem, fino a costituire una trilogia, in forma di scrittura plurale e di proliferazione dell'opera, forse avendo in mente, nel caso specifico, i tre Notte da leoni.
Tornando alla questione culturale, già Mario Soldati nel 1935 (in America primo amore) descriveva la differente reazione del pubblico americano, ingenuo e palpitante, rispetto a quella degli spettatori italiani, sgamati e un po' cinici. E, mettendo a confronto le aspettative di una dattilografa di Philadelphia con quelle di una simbolica sartina di Tortona, si chiedeva se noi italiani non resistessimo alle "americanate" attraverso il nostro senso della vita, che ci porta a considerare talvolta esagerati e impossibili certi scenari e certe peripezie. Da Leone a Sibilia (fatte le dovute proporzioni, ma in queste righe non è in gioco la qualità del film), la linea italiana del giocarsi in casa tradizioni a noi estranee significa anche riaprire i giochi dell'immaginario nazionale. E quelli, sempre a rischio asfissia, della commedia italiana.