Mentre il film di Amma Asante esce al cinema, le nomination agli Oscar spengono la polemica #OscarSoWhite e celebrano l'eccellenza afroamericana.
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Come tutti gli anni, gennaio è il mese delle nomination agli Oscar, che riservano sempre buone e cattive sorprese, candidati felici o esclusi infelici. Gennaio, ancora, è il mese dei bilanci sulla produzione cinematografica passata e il tempo di interrogarsi sulla presenza (o sull'assenza) degli artisti afroamericani nelle sezioni ufficiali. Sono sufficientemente rappresentati o al contrario troppo assenti?
Quest'anno, forse in reazione alle critiche o magari chissà all'elezione di Donald Trump, gli afroamericani sono stati nominati tredici volte nelle categorie regine. È importante sottolineare che se da una parte l'ultimo anno della presidenza Obama si è distinto per l'uscita di numerosi film black, quasi tutti in corsa per l'Oscar (Moonlight, Barriere, Il diritto di contare), dall'altra l'Academy ha rimesso mano al proprio statuto, aprendo e rinverdendo il proprio corpo elettorale. Così un anno dopo il boicottaggio indetto da Spike Lee e troppi anni neri dopo per gli attori black, i professionisti del cinema di origine afroamericana fanno ritorno alla prestigiosa cerimonia.
In attesa del 26 febbraio, il SAG Awards, premio consegnato ogni anno dal sindacato degli attori americani e barometro importante per gli Oscar, rimette le statuette a numerosi attori afroamericani (Denzel Washington, Viola Davis, Mahershala Ali, Taraji P. Henson, Octavia Spencer, Janelle Monáe), sottolineando attraverso i suoi interpreti l'impetuosa vitalità del cinema nero americano degli anni 2010. Moonlight, racconto di formazione di un ragazzino nero americano gay in un ambiente dove ci si afferma esclusivamente a colpi di ipermascolinità, è eletto invece film dell'anno dalla critica americana, rapita dalla nascita di un'identità fluttuante e ibrida, libera dalla pesantezza delle apparenze.
Da The Birth of a Nation a Il diritto di contare, passando per Barriere, Loving e Moonlight, sugli schermi arriva una coorte di film che declinano la storia e la condizione afroamericana. A settembre Obama ha inaugurato a Washington un 'monumento' a questa cultura, un museo aperto al pubblico (il National Museum of African American History and Culture) che ripercorre la storia della comunità afroamericana, dalle deportazioni all'abolizione della schiavitù, dal massiccio esodo rurale verso i ghetti del Nord al poderoso e sfaccettato movimento politico i cui sogni e il cui potenziale furono incarnati negli anni Sessanta da Martin Luther King.
Il cinema ha pescato in quel patrimonio di straordinaria creatività artistica, musicale, letteraria e politica e ha messo in scena una comunità che nonostante il Civil Rights Act, che ha abolito la segregazione nel 1964, nonostante l'emersione di un'élite nera, nonostante Obama, non è ancora stata assimilata al mainstream, costituendosi come nuova identità e segmento distintivo di quel mosaico multietnico che è la società americana. Spostandosi tra presente (Moonlight), passato prossimo (Barriere, Il diritto di contare, Loving) e passato remoto (The Birth of a Nation), queste opere risuonano l'urgenza della comunità afroamericana di affermarsi socialmente e passano tutti sulla pelle dei loro intensi protagonisti, incarnazione fiera della Storia in marcia. Accordando il dramma privato con la grande Storia, risalgono il tempo e rievocano brutalmente un trauma da cui gli Stati Uniti non si sono ancora rimessi.
Il film di Griffith presenta il Sud schiavista come la vittima dell'avidità nordista e degli afroamericani ridotti in schiavitù e poi affrancati come animali pericolosi. L'opera prima di Nate Parker realizza approssimativamente la sua legittima ambizione, nondimeno merita considerazione. Perché nella storia tormentata della rappresentazione delle relazioni tra comunità americane al cinema, The Birth of a Nation ha il merito di rovesciare radicalmente il punto di vista, di mostrare che l'orrore della schiavitù era insopportabile al punto da spingere un gruppo di uomini educati alla religione cristiana a prendere alla lettera i passaggi più sanguinari della Bibbia.
Accumulando le privazioni imposte dall'economia, le torture inflitte per sadismo e la brutalità quotidiana, questa realtà vecchia di due secoli rinvia a un Paese dove c'è ancora bisogno di gridare che le vite dei neri importano. Gli scontri razziali di Ferguson (2014) e Baltimora (2015) valgano ad esempio, amaro esempio di un razzismo istituzionale duro a morire, a cui non ha giovato nemmeno un presidente nero e una classe media nera che si è lasciata alle spalle, in trappola, le masse dei diseredati urbani, per emanciparsi dalla realtà del ghetto o anche solo dall'impronta che gli echi del ghetto gettano su di loro. Se Nate Parker risale alle radici storiche dell'identità afroamericana, un'identità che si è costituita nell'esperienza della deportazione e della schiavitù nella società più libera dell'epoca, Denzel Washington, Theodore Melfi, Barry Jenkins, Jeff Nichols, Raoul Peck rintracciano quella frontiera invisibile che resiste tra bianchi e neri.
Il cinema black, che approda generoso e febbrile sugli schermi e sul palcoscenico degli Oscar, fa i conti una volta ancora con l'umanità negata dei neri da una società che doveva conciliare l'evidente contraddizione tra gli ideali di libertà e l'altra produttività dell'economia schiavista. Questa negazione, questo incessante attacco contro l'umanità della comunità nera attraversa i film e rivela nelle sue storie una doppia urgenza: da una parte restaurare la propria identità culturale, inscritta in una prospettiva storica nazionale, dall'altra prendersi il diritto di parola, il diritto alla rappresentazione e alla creazione, il diritto a un sacrosanto posto nella società americana.
Volontà espressa nella vita privata dalle coppie miste e disposte a chiasmo di Loving e A United Kingdom, melodrammi classici che mettono le emozioni in primo piano e affrontano la violenza cieca di un mondo che vieta i matrimoni misti; volontà convertita in azione nel lavoro di tre scienziate nascoste che si appellano alla matematica per risolvere l'ineguaglianza (Il diritto di contare); volontà declinata nelle età di un ragazzino cresciuto nel ghetto e perseguitato per la sua differenza, una differenza che nemmeno lui riesce ancora a definire (Moonlight); volontà rinchiusa al di qua di un recinto da un uomo separato, che cerca un posto in una società che rigetta con il progresso (Barriere). Perché i personaggi di August Wilson, il drammaturgo afroamericano da cui muove il nuovo film di Denzel Washington, sono alla ricerca di un'identità compresa tra l'eredità africana, che ha le sue origini in una migrazione forzata dall'Africa dell'Ovest alla costa orientale degli Stati Uniti, e quella americana che per quanto facciano non possono rinnegare.
È nei tempi bui, minacciati da guerre o da un nemico esterno che l'America sembra riconoscere di colpo le sue minoranze. In faccia al pericolo, come dimostra molto bene Il diritto di contare, il film è ambientato in piena Guerra Fredda, la Nazione fa richiesta di coesione e si ricorda che i neri sono dei 'nostri'. È forse per questo che qualche volta non si guarda all'Oscar come a una semplice retribuzione al talento di un attore afroamericano d'eccezione ma come a un gesto simbolico, politico, riparatore.