Lei sogna di fare l'attrice, lui il musicista e la strada è impervia. Il canovaccio è conosciuto ma il racconto è irresistibile, e a suo tempo, vincerà tutto, sta nell'ordine delle cose.
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Lo scorso anno, mesi prima della notte delle stelle scrissi che Leonardo DiCaprio aveva vinto l'Oscar. Non posseggo virtù divinatorie, stava semplicemente nell'ordine delle cose. Su La La Land, a suo tempo, cadrà una pioggia di Oscar, sta nell'ordine delle cose, per molte ragioni. La prima è semplice: è un capolavoro, un titolo da 5 stelle. Un'altra ragione è la premessa felice dei tanti Golden Globe che ha ottenuto. E poi... c'è l'arte. Più avanti spiegherò. Ormai è un dato accreditato da tutti coloro che hanno raccontato il film di Damien Chazelle: si rifà, per vicenda e stile, ai grandi classici dell'età dell'oro. Dico che il genere è molto importante, perché rappresenta, anzi, sublima, quella che è la prima opzione del cinema, l'evasione. I musical hanno trasmesso la gioia di vivere in epoche in cui, nella vita reale, ce n'era poca. Il concetto è stato recentemente ribadito da Steven Spielberg che, parlando del suo Il GGG - Il Grande Gigante Gentile ha rilevato come sia utile agli americani una proposta felice in vista degli anni, difficili, magari pericolosi, che si vanno profilando. Non è difficile immaginare a chi si riferisse il cineasta.
Emma Stone, già vincitrice del Golden Gobe, non sarà una bellezza disegnata chirurgicamente alla Kidman o alla Theron, ma è un dono ti talento e di freschezza, una bella ragazza vera, con quelle iridi grandi e affettuose. Non c'è una come lei.
Un inciso: mi arrabbierei molto se la Streep, icona eterna e ormai stucchevole nella sua bravura, mai-stata-bella, e straprotetta dal sistema, le sfilasse il premio. Ryan Gosling è complementare alla Stone. Non ballano come Kelly e Charisse ma sono una gran bella coppia. Ci si affeziona.
Chi conosce il cinema, quello degli anni belli, riconoscerà istantanee e momenti di quella storia: una locandina de I gangsters di Hemingway con Lancaster, una sequenza di Gioventù bruciata col primo piano di James Dean; Mia-Emma indica a Sebastian-Ryan una finestra: "è quella di Bogart e della Bergman in Casablanca". E poi il ballo: la musica di Justin Hurwitz non è quella dei vari Gershwin, Porter, Berlin e Kern, ma funziona e offre ai due protagonisti delle belle chance.
Sopra ho detto "arte". Ecco la spiegazione: gli americani sono sedotti dal musical. Ci si sono talmente applicati, ne hanno talmente alzato il livello fino a farlo diventare l'unica forma d'arte "tutta e solo americana". E poi il musical, secondo il concetto di Spielberg, è stato molto vicino al Paese, quando ce n'era bisogno. Fred Astaire e Ginger Rogers furono una coppia travolgente. Lui in frac e lei in abito chiaro rimangono una grafica imprescindibile dello spettacolo del '900.
Sopra ho scritto "gioia di vivere". Fu proprio l'amministrazione Roosevelt a dare a Hollywood un preciso input, nell'epoca della grande depressione: "fate film che tengano alto il morale della gente". Durante la guerra, Hollywood produsse film positivi e utili. Certi titoli, non musicali questa volta, erano capolavori anche se penalizzati in partenza dalla propaganda, come La signora Miniver, Casablanca, I migliori anni della nostra vita. Oscar a decine su quei titoli. Durante gli anni del maccartismo, quelli della caccia alle streghe, uno dei momenti più bui della storia americana, il musical arrivò in soccorso e fu proprio quello il momento del salto di qualità, verso l'arte, appunto. Lo si deve alla Metro Goldwyn Mayer, che davvero non badò a spese. Quando servirono, fece venire dall'Europa i maggiori esperti dell'Impressionismo e di... Shakespeare.
In Un americano a Parigi (1951, 6 Oscar), Minnelli animò un dipinto di Toulouse Lautrec dal quale si stacca Kelly. E non è la sola invenzione e il solo investimento. E poi c'era la musica di Gershwin, autore di canzoni popolari e di sinfonie classiche al massimo livello. Cantando sotto la pioggia (1952) fa il paio con "Un americano". Altro titolo travolgente, Sette spose per sette fratelli (1954), grazie alle coreografie di Michael Kidd, inventore della danza acrobatica. Kiss me Kate (1953) è un altro film che legittima il concetto "arte americana": è la rappresentazione della "Bisbetica domata" di Shakespeare, affidata alle canzoni, parole e musica, di quel genio di Cole Porter... è quella la stagione più bella, e nobile del musical.
Il musical continuava, secondo epoche e cultura. Vale una breve contestualizzazione, per arrivare a La La Land. Alla Metro seguiva la Paramount con Elvis Presley, minore qualità generale, ma non serviva, Elvis cantava e bastava a se stesso, e al film. Erano gli anni sessanta. Del 1961 è West Side Story, altra dimensione shakespeariana, "Romeo e Giulietta", premiato con 9 Oscar, sesta posizione assoluta. Disney produsse Mary Poppins (1964) con Julie Andrews, altra tessera fondamentale nel mosaico del musical.
E poi cambiavano i tempi, avanzava l'impegno e il sociale. Il Vietnam diventava un'ispirazione di titoli come Jesus Christ superstar (1973), grande film in assoluto, e Hair (1979). Titolo storico è The Rocky Horror Picture Show (1975) a suo tempo ritenuto scandaloso per le sue allusioni sessuali. E poi, il fenomeno Grease - Brillantina (1978). Il film con Travolta era una sorta di revisione. Introdotto da L'amore è una cosa meravigliosa, canzone simbolo degli Anni Cinquanta, presenta vicende ed estetiche di quelle stagioni. Nei titoli finali, in piccolo, quasi a nasconderlo, appare il nome del coreografo: Gene Kelly. Ancora lui.
L'età dell'oro era finita, il genere declinava, ma sopravviveva. Qualche titolo si imponeva, come i Blues Brothers (1978), con "quei due", Belushi e Aykroyd, che hanno lasciato un segno. Wenders, attento alle etnie, racconta la musica cubana in Buena Vista Social Club (1998). Un film da molte stelle è Fratello, dove sei? (2000), dei Coen, un semi-musicale pieno di metafore e di intelligenza, con alcune delle più belle canzoni folk americane. Musical di buona fattura è Chicago (2002, 5 Oscar), con Zeta-Jones e Zellweger che (quasi) non fanno rimpiangere le dive della Metro.
Si è imposto, con grandi incassi al botteghino, Mamma Mia! (2008), facilitato dal successo planetario degli Abba e dal cast: gente come Streep, Firth e Brosnan. Les Misérables (2012) è una rappresentazione superflua e velleitaria del grande romanzo. Hugo, certo non avrebbe gradito.
Sequenza finale: il richiamo irresistibile della Senna. Emma e Ryan ballano su quella riva, come avevano fatto Kelly e Caron nella rapinosa "Our Love is Here to Stay", come avevano cercato di fare Allen e Hawn con "I'm Through with love". È dunque Parigi col suo fiume, il magnifico denominatore comune che riallaccia il filo d'oro dei grandi musical. Grazie a La La Land.