Gavin Hood dirige Helen Mirren in un film che si interroga sulla questione giuridica, militare e politica del decidere sulla vita e sulla morte delle persone. Al cinema.
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Quante volte abbiamo dichiarato di voler essere una mosca per poter volare vicino a nostri conoscenti e guardare ciò che fanno gli altri o ascoltare quel che dicono di noi? Con le nuove tecnologie è possibile. Lo dimostra Il diritto di uccidere di Gavin Hood, dove - tra i molti dispositivi visivi in grado di osservare gli avvenimenti in un dato luogo - c'è anche un calabrone meccanico dotato di micro-telecamera che spia da punti di vista imprendibili e quasi onnicomprensivi la riunione segreta di alcuni jihadisti. È solo una delle strategie di visione proposte dal film, insieme alla vista dal drone, quella proveniente da un altro insetto artificiale, e da altri mezzi, poi rimandati in simultanea su diversi schermi digitali in differenti parti del mondo, collegate tra di loro attraverso una conference call dove si decide la sopravvivenza o meno dei bersagli e delle vittime collaterali.
Tuttavia, in Il diritto di uccidere di azione ce n'è poca e, come è stato giustamente sottolineato, il nocciolo drammaturgico del film è claustrofobico, quasi teatrale. Le immagini di quello che potrebbe avvenire e di quello che continua a non avvenire creano una tensione formidabile, di cui Hood è perfettamente consapevole, tanto da limitarsi a usare il potenziale estetico delle immagini "senza autore" di droni e occhi meccanici, e mantenendo la regia a livelli minimali di intervento.
Dal punto di vista filosofico, i dibattiti sulla questione giuridica, militare e politica del decidere sulla vita e sulla morte delle persone (in alcuni casi cittadini degli Stati che stanno preparando una esecuzione mirata), è anche una sfida tra quello che accadrà certamente sganciando un missile e quello che potrebbe succedere in caso contrario - con tutta la retorica bellica delle vittime collaterali volte a evitare ancora maggiori vittime potenziali in futuro, alla base di ogni concetto di "attacco preventivo" e non di repressione successiva alla violenza. Si tratta ovviamente di dibattiti delicati, enormi, su cui da decenni si discute con visioni anche diametralmente opposte.
Compito del cinema - ovviamente se e quando lo desidera - è dunque di porsi un problema di linguaggio (integrando, come ha sempre fatto, le nuove modalità di visione impiegate dall'industria tecnologica e bellica) e di comprensione del presente. Hood, ci pare, preferisce coltivare il dubbio morale, lasciando spazio allo spettatore, e mantenendo dignità a tutte le parti in campo. Non sarà una decisione giuridica a salvarci l'anima.